Dall’alto dei suoi novant’anni, Carlo Azeglio Ciampi si appella alla «pedagogia repubblicana». Fa riferimento, ma la cosa era scontata, al De senectute di Cicerone. Questo per dire che le istituzioni sono in pericolo, che le coscienze civili tremano. Che «un male oscuro sta corrodendo l’Italia», che «assistiamo sgomenti al graduale svuotamento delle istituzioni, all’integrale oblio dei valori, al totale svilimento delle regole» per via del così mal detto «decreto salva-liste». Dice ancora e sempre dall’alto dei suoi novant’anni il presidente emerito Ciampi che qui stiamo «all’ultimo aberrante episodio di torsione del nostro sistema democratico». Siamo «alla strage delle illusioni, al massacro delle istituzioni». Parole grosse per una condanna definitiva: mas-sa-cro delle istituzioni. E tanto per non lasciar nulla di intentato il nonagenario ex presidente del Consiglio prende a massacrare la più alta, delle istituzioni. Il Quirinale. E lo fa con curiale premura, precisando, però con ancora in mano la pistola fumante, che «non ha senso, adesso, sparare sul quartier generale».
Le intenzioni erano buone, se viste dalla parte dei «sinceri democratici». Un attacco a testa bassa a Silvio Berlusconi, un saggio istericamente declamatorio di antiberlusconismo militante. È lui, il Cavaliere, il male oscuro, lui che oblia i valori e svilisce le regole, lui che torce il sistema democratico e massacra le istituzioni. Ma sebbene a mezza bocca Ciampi è costretto ad ammettere che tutto ciò è stato possibile grazie all'avallo del «quartier generale», ovvero di Giorgio Napolitano. Egli ha dunque parlato a nuora perché suocera intenda e la suocera, nel nostro caso, è l'inquilino del Colle. Sarà stata la passione, sarà stato un inopinato appannamento, avrà il novantenne Carlo Azeglio Ciampi perduto un po' il filo del discorso per giungere a impallinare - chiamasi fuoco amico - Napolitano? Certo, se egli afferma che «oggi ci alziamo la mattina, e ogni giorno ci accorgiamo di aver fatto un altro passo indietro» mentre nel 1940, dicesi 1940, «ci svegliavamo la mattina convinti che, comunque fossero andate le cose, avremmo fatto un passo avanti», qualche dubbio sul rilassamento intellettuale permane. Però, a chi non capita, di tanto in tanto, uscir di rotta trascinati da giovanile impeto, incurante degli eventuali danni collaterali? Figuriamoci se non succede a uno come Ciampi che in tarda età ha voluto far suo - così almeno ammise - il motto dei fratelli Rosselli: «Non mollare».
E per mollare, non molla, anche se qualche pausa forse conviene che se le prenda. Perché a forza di trattenere il canapo si finisce per perdere la trebisonda. Non s'era mai visto, infatti, un ex capo dello Stato che strapazzasse a tale punto - e con linguaggio dipietrino, per di più - il suo successore. Né s'era vista, da parte di un uomo tanto eminente, un così aggressivo disprezzo per il buon senso istituzionale poi vanificato dall'anchilosato formalismo di un magistrato del Tar.
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