"In bici? Si vince da soli. Ho visto la morte a 13 anni"

L’ex campione di ciclismo Mario Cipollini ripercorre carriera e vita privata: "Infanzia in sanatorio e poi trionfi. Grazie a papà"

"In bici? Si vince da soli. Ho visto la morte a 13 anni"

Mario Cipollini è stato uno dei ciclisti italiani che nella vita ha vinto più gare. Quasi 200 da professionista, meglio di lui solo Moser e Saronni. Era formidabile in volata, praticamente imbattibile. Fisico imponente, capelli al vento, lo chiamavano il Re Leone.

Mario, cosa rappresenta per lei la bici?

«La libertà».

Beh, non solo

«Certo, poi è diventata un lavoro, ma la base è la libertà. I milioni di appassionati di ciclismo sanno che quando sali in bici, a qualunque età, sei sempre quel bambino che prende la bici per andare a giocare con gli amici».

Si ricorda la prima volta?

«No. Non credo che ci sia stata una prima volta. Io credo di essere sempre andato in bicicletta».

A che età fece le prime gare?

«Il ciclismo permette di fare le gare dai 6 anni. Io però facevo le gare sul piazzale della chiesa con i bambini del paese. Avevo quattro anni, o cinque, gli altri erano più grandicelli. Ma io avevo una missione».

Quale?

«Vincere. Me l'aveva data papà».

È sempre stato competitivo?

«Sì, è una cosa innata. Credo che sia genetica. Io però competevo soprattutto con me stesso. Quando mi allenavo ero solo. E correvo contro un avversario immaginario che era più forte di me. E io dovevo inseguirlo e poi raggiungerlo e poi superarlo».

Quando è in bici a cosa pensa?

«La bellezza di uno sport istintivo come la bici è che ti permette di fluttuare nei pensieri. Nelle altre discipline sportive devi essere concentrato su quello che fai. C'è molta tecnica. Nel ciclismo no».

Lei hai dovuto combattere con un problema fisico importante: la miocardite.

«Sì , ma non è stata quella la prova più dura».

Quale è stata?

«Io sono sempre stato un vincente. In un passaggio di categoria, a 13 anni, la prima gara che feci arrivai secondo. Pensai: Vabbè sono passato in una categoria più tosta. Arrivare secondo va bene. La settimana dopo arrivai terzo. Mio padre, calmissimo, sentenziò: Mario è malato. Mamma lo prese in giro. Disse che erano sciocchezze. Lui insistette. Disse : Mario vince le gare, se non le vince sta male. Andiamo dal dottore».

E che faceste?

«Andammo dal dottore».

E che disse?

«Che la VES era altissima e dunque avevo un'infezione molto forte e che qualcosa non andava nei polmoni. Altre analisi e mi diagnosticarono una sarcoidosi polmonare. Temevano un tumore. Mi mandarono in sanatorio. Perciò fermo due anni».

E come è stata la vita in sanatorio?

«A 13 anni sei un bambino. In un sanatorio, solo, con tutte persone anziane... E io la notte sentivo che una persona era morta. E poi un'altra. Facevo amicizia con delle persone e il giorno dopo non c'erano più».

Ha pensato: basta bici?

«No. Il professor Quilici dopo due anni mi diede il via libera e mi disse: vedrai che un giorno metterai la maglia gialla, quella del Tour E io un giorno riuscii a prenderla».

Il ciclismo le ha dato anche ricchezza, fama, vita da vip

«Ho vissuto per 15 anni nel Principato di Monaco. Sono stato figlio del benessere. Giravano i soldi. Le feste a Montecarlo, le cene. Però a me tutto questo non piaceva. Me lo imponevano i manager».

Non si sentiva invincibile?

«No. Il cuore della mia morale resta la bici. E bici è sacrificio, è disciplina, rigore. La bici se non parti alle 8 di mattina e ti alleni tu non vinci. La bici non è il calcio».

Nostalgia del mondo contadino?

«Più passa il tempo e più l'idea di avere una casetta e un pezzo di terra si fa strada».

Va ancora in bicicletta?

«Oggi ho fatto 180 chilometri, 5300 calorie. Ho 58 anni. Quando salgo il parco dell'Orecchiella, supero due colline, un panino al prosciutto in Garfagnana, mi sento soddisfatto».

Suo padre chi era?

«Mio padre è stato il maestro, il capo di tutti quelli che sono stati i miei passaggi. Lui era un camionista di lungo raggio, io ero un bambino di 10 anni e conoscevo l'Italia perché lui mi portava nei viaggi con sé. Domani non vai a scuola, diceva, vieni con me».

Le piaceva?

«Io e lui soli. Dormivamo nelle cuccette. Il sogno che si avvera. Le luci di notte, i clacson. Così ho imparato la geografia e le mappe del giro d'Italia».

Non ci sono più i suoi genitori?

«Sono morti nel giro di pochi anni mio padre, mia madre e poi mio fratello. La morte che mi ha ferito di più è stata quella di mio padre. Gli avevo regalato io una bici Bianchi. Un giorno mentre lui era in bicicletta una signora non si fermò alla stop. Lui non morì, restò vivo per altri 11 anni senza nessuna capacità di intendere».

E la sua reazione?

«Depresso. Per almeno due anni. Poi un giorno mi dissi: Ora torno ad essere Cipollini. Papà vuole che io vinca. Glielo devo. Andai in Belgio e diventai campione del mondo».

Cosa le ha insegnato suo padre?

«Mi diceva: il fisico te l'ha dato madre natura, il resto lo metti tu. Mi ha insegnato a fare il meccanico, il contadino, il ciclista».

La prima convocazione della Nazionale?

«Appuntamento a Milano. Avevo 17 anni. Mi presentai con una valigetta di cartone e la sacca della bici. Trovai tutti gli altri con le ammiraglie, le Mercedes io con uno zoccolo e una ciabatta. Andammo in Germania e io vinsi due tappe su tre. Lì cominciai a credere in me stesso e capii tante cose».

Lei ha due figlie, è un buon padre?

«Nella prima fase della loro vita ero nel pieno della carriera, forse le ho un po' trascurate. Ora sto rimontando bene. Il momento più bello è quando andiamo a cena insieme».

Qual è stato il punto più alto della sua vita?

«La più grande felicità è quel giorno che ho vinto la volata, e sono salito sul podio, ed ero campione del mondo. Avevo 35 anni».

Il più basso?

«Il momento più brutto quando la mia ex moglie mi ha denunciato per violenza».

E lei è innocente?

«Sì».

E come si sentii quando arrivò la denuncia?

«Ti senti nudo, ti senti distrutto, vedi sgretolarsi tutto quello che hai costruito, Compresa la tua immagine. Senti la gogna mediatica. Sei disperato».

Cosa le è rimasto?

«La cosa più importante: L'amore e il rispetto delle mie figlie».

Né rabbia né rancore?

«Né rabbia né rancore».

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