"Io, il Ferrari delle 2 ruote e l’università della strada"

Laurea ad honorem in Ingegneria all’uomo simbolo della bicicletta, Ernesto Colnago: "A 93 anni è una cosa incredibile..."

"Io, il Ferrari delle 2 ruote e l’università della strada"

Per tutti è da sempre il maestro, ma dall’8 maggio prossimo dovremmo perlomeno chiamarlo ingegnere... Una gran bella soddisfazione per uno che in vita sua ha fatto solo le scuole elementari e ha frequentato la prima e seconda media alle serali... «Più che una soddisfazione è qualcosa di incredibile – ci dice Ernesto Colnago, 93 anni compiuti il 9 febbraio, un grande italiano nel mondo -. Quando me l’hanno comunicato, in un primo momento ho pensato che si trattasse di uno scherzo, poi mi hanno chiamato dei professori del Politecnico di Milano e a quel punto mi sono detto: questi fanno sul serio».
Un balzo nel tempo, di quasi quarant’anni, per tornare a quel 1986 quando conobbe Enzo Ferrari che ingegnere non era, ma al quale furono conferite due lauree “honoris causa” meritate sul campo, per quello che il “drake” seppe fare nel mondo dei motori e in Formula 1 in particolare. Due lauree: una datata 1960 in ingegneria meccanica e ricevuta dall’Università di Bologna e l’altra in fisica, conferitagli nel 1988 da quella di Modena e Reggio Emilia.

Il primo ricordo di Ferrari?

«Il “drake” lo incontrai a Maranello grazie all’ingegner Mauro Forghieri, che mi procurò l’appuntamento. Mi colpì immediatamente perché si rivolse a me parlando in dialetto milanese. “Ho corso per l’Alfa Romeo - mi disse -, poi ci ho lavorato e mi è rimasto il gusto di parlare il vostro dialetto”. Gli spiegai che volevo usare materiali innovativi, gli stessi che utilizzava lui in Formula 1. Così mi introdusse nel mondo del carbonio».

C’è un momento che rappresenta la svolta?

«Cominciammo a lavorare a stretto contatto con la Ferrari Engineering: quante notti, quanti calcoli, quante intuizioni, prove e test... E dire che inizialmente ero anche un po’ timoroso. Ricordo che Ferrari, vedendomi titubante, ad un certo punto mi chiese: “Quanti anni hai?” Io feci un gesto con la mano come a dire un sacco.
Lui mi fulminò con un perentorio “Vergognati! Io a 54 anni ho cominciato a fare le cose più belle!”. Fu una scossa di adrenalina pura: una lezione di vita che mi accompagnò per il resto dei miei giorni».

Ma è vero che dietro all’incontro con Ferrari c’è nientemeno che un Re?

«Vero. Fu Leopoldo del Belgio a inocularmi l’idea. Dopo il record dell’ora stabilito a città del Messico da Eddy Merckx nel 1972, mi trovai a spiegare a Re Leopoldo i segreti della bicicletta che avevo realizzato ed è stata anche esposta al Moma di New York. Lui mi ascoltò con grandissimo interesse e poi, rivolgendosi alla principessa Liliana e alle principessine Esmeralda e Maria Cristina, disse: “Questo signore è il Ferrari delle due ruote”. Non le nascondo che quella definizione mi piacque un sacco e da quel giorno cominciai a pensare che forse era il caso che conoscessi davvero il “drake”. Dovevo arrivare a lavorare con la Ferrari».

Anche la forcella dritta nacque da una “dritta” di Ferrari.

«Come sempre tutto partì da una domanda: “Perché le forcelle delle biciclette sono curve?”. Per ammortizzare meglio le vibrazioni, risposi. Quel giorno eravamo a tavola, alla Bruciata, una trattoria per camionisti e su un tovagliolo bianco disegnò e mi spiegò che solo una forcella dritta poteva ammortizzare nel modo più corretto.
Non le dico quanti notti trascorse a elaborare questo progetto, con tutti quelli dell’ambiente che sentenziavano sicuri che si sarebbe rotta, che si sarebbe spezzata, che non avrebbe funzionato mai».


Le diede fiducia Giorgio Squinzi, il signor Mapei.

«Insieme a Fiorenzo Magni e Enzo Ferrari, il dottore e la dottoressa (Adriana Spazzoli, la moglie, ndr) sono le persone più importanti della mia vita professionale, perché la mia famiglia è in cima alla lista, con la mia Vincenzina».

Mai avuto tentennamenti o pressioni?

«La notte che precedette la Parigi-Roubaix del 1995 la rammento ancora oggi benissimo.
Non può immaginare le telefonate del dottore, che dalla Francia riceveva chiamate di ogni tipo. “Mi dicono che è un rischio troppo grande, che è folle correre una Roubaix con un telaio in carbonio, per giunta con la forcella dritta, Ernesto sei sicuro che quelle biciclette possano andare bene?”. Arrivarono anche a offrirgli un mucchio di milioni di lire per montare sulle biciclette delle forcelle ammortizzate da downhill. Io rimasi fermo sulle mie posizioni: “Giorgio, ti assicuro che andranno benissimo”. E lui: “Se va bene vinciamo insieme, se sbagliamo, affondiamo assieme”.

Come andò a finire?

«Il giorno dopo chi aveva montato le forcelle biammortizzate non arrivò nemmeno al velodromo di Roubaix, noi con la C40 in carbonio e la forcella dritta, vincemmo con il povero Franco Ballerini. Per la cronaca: la Mapei vinse cinque edizioni della classica del pavé, tutte su biciclette Colnago. E le forcelle ammortizzate, sparirono dalla circolazione».

E dire che tutto è partito da un bugigattolo di 5 metri per 5...

«Vivevo in una casa che era una cascina con un cortile. Papà Antonio lavorava la terra, mamma Elvira era la regina di casa. Elementari e poi medie serali con il professor Tranquillo Caprotti. Eravamo in tre: Cesare Mangiagalli, figlio di un prestinaio, che è diventato medico; Pietro Carrea, figlio di un fabbro ferraio, che si è laureato in ingegneria meccanica. L’8 maggio anch’io conseguirò una laurea».

Un riconoscimento oltre

i libri...

«Arriva dopo aver frequentato l’università della strada, accumulando esperienze, il valore più prezioso. Una laurea, come Cesare e Pietro, come Enzo Ferrari: ci ho solo impiegato un po’ di più...».

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