Tra Cina e Vietnam volano gli stracci (rossi)

Secondo una consolidata tradizione, nei Paesi comunisti non possono esserci manifestazioni dell’opposizione, la linea del Partito essendo per definizione infallibile. Occhiutissime polizie fanno in modo che questo dogma trovi attuazione nei fatti, ben ricordando i loro mandanti ciò che predicava nell’Urss degli anni Sessanta il coraggioso dissidente Vladimir Bukovskij: basta un solo oppositore determinato a terrorizzare un sistema a partito unico. Da qui gli arresti preventivi dei «provocatori al soldo dell’imperialismo» (altrui) e le solenni bastonature inflitte ai pochi che osano sfidare i divieti. Questo per spiegare che qualora in un Paese comunista si assista a una pubblica e indisturbata manifestazione di protesta, si può star certi che il governo non solo l’approva, ma l’ha organizzata.
È quanto accade in questi giorni, e ancora ieri pomeriggio, a Hanoi e Ho Chi Minh City (la vecchia Saigon), dove centinaia di vietnamiti si riuniscono davanti alle sedi diplomatiche della Cina - retta come il Vietnam da un regime comunista - per protestare «contro la violazione delle nostre acque territoriali». È l’ennesimo capitolo di un acceso contrasto tra «cugini rossi» nell’Estremo Oriente, originato dalla volontà espansionistica di Pechino che cresce di pari passo con la sua forza economica. La Cina ha la pretesa di estendere la propria sovranità su una vasta area nel Mar Cinese Meridionale, fondandola sulla presunta appartenenza al suo territorio di alcune isolette disabitate che sorgono a oltre mille chilometri a sud delle sue coste. Peccato che sullo stesso specchio d’acqua avanzino identiche pretese in molti: Taiwan (che la Cina considera niente più che una sua provincia ribelle), le Filippine, la Malaysia, il minuscolo sultanato di Brunei e, appunto, il Vietnam. Da qui l’invio in quel mare, pescoso e probabilmente ricco di petrolio, di navi da guerra e piccoli contingenti d’occupazione, in un contesto di crescente tensione.
È evidente che la vicinanza ideologica non aiuta Cina e Vietnam a praticare l’incrollabile amicizia internazionalista tra proletari di cui ciancia la retorica comunista. Chi ha un po’ di memoria ricorda peraltro che già all’inizio del 1979 i due Paesi si affrontarono in un breve ma sanguinoso conflitto di frontiera, oltre che, indirettamente, nelle fasi finali della fine del mostruoso regime cambogiano di Pol Pot, che la Cina sosteneva.
Più in generale, è un fatto che da quando è crollato il decrepito edificio dell’Unione Sovietica i pochi Paesi superstiti del comunismo mondiale si muovono in ordine sparso. La Cina insegue i suoi sogni di egemonia mondiale e litiga col Vietnam, ma sostiene la Corea del Nord che ne ha un bisogno disperato: e già che c’è delocalizza in quel Paese affamato, creandovi «zone economiche speciali», le proprie industrie più inquinanti. Il Vietnam fa a braccio di ferro con Pechino e fa da fratello maggiore prepotente col confinante Laos, rimasto comunista nell’indifferenza del mondo in virtù della sua marginalità strategica ed economica.

La gerontocratica Cuba, persa da un pezzo mamma Mosca che teneva in piedi a suon di rubli il suo regime fallimentare, stringe accordi economici coi soliti muscolosi cinesi (il vicepresidente Xi era all’Avana dieci giorni fa) ma non disdegna di fare avances alla Bielorussia, Paese che i nonnetti Castro definiscono eufemisticamente «stabile e prospero», ma che certamente apprezzano di più perché i suoi servizi segreti si chiamano ancora Kgb. Gratta gratta, la fratellanza dei “bei tempi” da qualche parte c’è ancora.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Pubblica un commento
Non sono consentiti commenti che contengano termini violenti, discriminatori o che contravvengano alle elementari regole di netiquette. Qui le norme di comportamento per esteso.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica