Ci mancava solo la beffa dadaista di Azione futurista, ci mancava solo la fontana di Trevi colorata di rosso per azzardo mediatico, mancava solo questo per rendere in maniera simbolicamente sgargiante il tono paradossale della giornata di ieri, in una Roma veltroniana che dopo anni di kennedysmo dosato dal sindaco con sagacia e pazienza, dopo un decennio di cultura di nuove icone «liberal» - da Don Milani agli azionisti, da De Saint Exupéry a Olof Palme - veniva improvvisamente attraversata da fervori «radical», terzomondisti, rivoluzionari.
E se è vero (come è vero) che il festival del cinema è il vero biglietto da visita cultural-politico di questa amministrazione, se è vero che ad organizzare la rassegna è lo stesso Goffredo Bettini che è anche l’unico numero due della corrente veltroniana, allora è sicuramente rilevante che il più importante evento politico della rassegna sia la maratona «castrista» organizzata da un caricatissimo Gianni Minà (iniziata ieri, e destinata a finire domenica). Un evento nell’evento, che occupa ben tre giorni, e impegna cinque monumentali documentari che Minà ha girato in quasi venti anni di lavoro: si passa dalla storica intervista di quattro ore del 1987 (Fidel), alle due puntate dedicate a Il papa a Cuba, a Un giorno con Fidel, a Cuba trenta anni dopo, a Castro racconta Guevara, per chiudere con un’ultima pellicola dedicata al Comandante Marcos. In realtà il giornalista aveva in cantiere persino un’altra pellicola, ma non ha fatto in tempo a ultimare il montaggio in tempo per la rassegna.
Ma in ogni caso lui, il giornalista più vicino a Fidel, il più profondo conoscitore del Sudamerica in Italia, l’uomo che ha fatto impallidire il lungometraggio di Oliver Stone su Il Comandante e dimenticare le sperimentazioni cubane di Barbara Walter e Dan Rather («Non se li ricorda più nessuno, li ho cancellati!», grida euforico), ieri era sulla soglia del cinema Filmstudio con il piede piantato e una carica esplosiva: «Questo mio lavoro ha subito anni di censura e di embargo in Italia, quando tutto il mondo applaudiva questi documentari. A Berlino sono stato osannato. Solo da noi - attacca Minà - c’è un inspiegabile pregiudizio che impedisce che queste pellicole potessero circolare liberamente». Fino a ieri: «Sì, certo. Devo dire grazie a Veltroni, e soprattutto ai curatori della mostra per avermi dato questo spazio, per avermi fornito una visibilità così importante».
La maratona, proiettata in una sala di Trastevere (il festival, come è noto, è itinerante) registrava purtroppo un solo spettatore (il sottoscritto). Ma in sala la mole di documenti era straordinaria. Fidel che parla all’assemblea degli scrittori americani spiegando i retroscena e la sua lettura del viaggio di Wojtyla («Si sono fatti un piacere l’un l’altro», spiega Minà), Fidel che riceve il pontefice in abito blu («Fu una mossa azzeccata, la divisa era la rivoluzione, lui era una istituzione», chiosa il giornalista) e poi gli scoop degli altri documentari. È stato davanti al microfono di Minà che Fidel ha parlato per la prima volta della guerriglia africana del Cue («Uno scoop mondiale», gongola giustamente lui) e poi una maratona nella maratona: perché il film sulla giornata con il líder máximo deriva da sedici ore di girato su 24.00: «Praticamente - sorride Minà - manca solo la parte in cui dorme». Chissà se Veltroni, alle prese con la partita doppia del Campidoglio e del partito democratico aveva avuto modo di valutare a pieno l’impatto della maratona fidelista.
Chissà se si farà un salto al Filmstudio per godersi un frammento di maratona. Certo è che nove ore di fidelismo possono mettere a rischio dieci anni di neokennedysmo.
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