Ma il cinema non è solo evasione

Ma il cinema non è solo evasione

È quasi un riflesso condizionato, una piccola reazione a catena che scatta spesso alla vigilia dell’invadente stagione dei festival cinematografici. Contrapporre i risultati del botteghino a quelli delle premiazioni festivaliere è un vecchio trucco, quasi un’abitudine giornalistica, uno sport in voga che si esercita, per fortuna con un pizzico di autoironia. Da una parte l’esercito dei cinefili asserragliati a difesa del Lido e dell'Auditorium di Roma, dall’altra i fautori del cinema d’evasione. Gli argomenti si ripetono: i film che vincono sono lenti e barbosi, quasi mai piacciono al grande pubblico, spesso provengono da Paesi lontani - asiatici o sudamericani - e, se vicini, tuttavia marginali. Provocazioni così, vergate con brillantezza stilistica, le abbiamo lette anche su queste pagine. Il punto di partenza è che il cinema dev’essere svago, un passatempo divertente e stop.
Parafrasando un’espressione di Nanni Moretti la piccola querelle si potrebbe chiudere con un semplice «ve li meritate i cinepanettoni», pur detto senza snobismi. L’approdo finale della filosofia dell’evasione sono appunto i film di Natale, la commedia sgangherata, la goliardia portata sul grande schermo. Al box office incassano molto. La gente riempie le sale. Si ride e siamo tutti contenti. Finita qui? Forse no. Anche perché, parlando della Mostra di Venezia iniziata ieri, un’ampia retrospettiva con tanto di presenze di attori e registi di riferimento, da Verdone ai Vanzina, è appunto dedicata alla «situazione comica» del cinema italiano. E, dunque, ai festival c’è spazio per tutti.
Ma la questione è anche un’altra. Senza sottovalutarne l’importanza e con tutto il rispetto per la spensieratezza, la cosiddetta settima arte può fare qualcosa di più che divertire e basta. Così come in letteratura sarebbe un errore accontentarsi dei soli libri di Moccia (sempre con rispetto parlando). Andare al cinema, come leggere un libro o guardare la tv, qualche volta può persino essere un’esperienza di arricchimento personale, magari interiore, perché no. Ma l’opportunità di un dialogo con qualcosa di diverso da sé richiede pazienza e disponibilità a mettersi in gioco. Altrimenti, oltre a non progredire anche economicamente, si rischia di non imparare più niente.
Tornando a bomba, ai festival i premi dipendono dalle giurie. Due anni fa al Lido, presidente Clint Eastwood, vinse il Leone d’oro The Wrestler di Darren Aronofsky, il regista che ieri ha inaugurato la 67ma edizione della Mostra la cui giuria è presieduta da Quentin Tarantino, amante dei B-movie italiani, sponsor del Robert Rodriguez di Machete visto ieri, e tutt’altro che un intellettuale da cinema d’essai. Vedremo come andrà. Per il resto conta aggiungere che, sempre restando a Venezia, negli ultimi anni sono stati premiati registi come Zhang Yimou quello di Lanterne rosse per intenderci, o come Ang Lee (I segreti di Brokeback Mountain e Lussuria): uno cinese e l’altro taiwanese seppure residente in America. Tutto ciò per dire che basta rinfrescare la memoria per non farsi prendere da quel complesso di superiorità che può tramutarsi a sorpresa in una forma di provincialismo culturale. Che a volte può portare a scivoloni come quando si scherza sulla reclusione nelle carceri iraniane (!) di Panahi, autore de Il cerchio.

In altre parole, chi può decidere a priori che un film greco o un regista scandinavo non meritino la passerella veneziana così come, per esempio, l’anno scorso l’ha strameritata Baarìa di Tornatore?
Vetrina mondiale, luogo di discussione, volàno produttivo e occupazionale, termometro di costume: i festival, soprattutto se non sono doppioni ravvicinati anche nelle date, è bene che continuino a esistere. Tanto più se festival non sono, ma si chiamano, non a caso, Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
MCav

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