Il film “A House of Dynamite” di Kathryn Bigelow, presentato in concorso allo scorso Festival di Venezia, è uscito su Netflix da pochi giorni.
Bigelow, la sola donna ad avere conquistato un Oscar alla regia (nel 2009 per “The Hurt Locker”), torna al cinema dopo una pausa di otto anni; come già fatto in “Zero Dark Thirty”, titolo sulla cattura di Osama Bin Laden, concentra una intera narrazione su una emergenza estrema che implica una serie di decisioni difficili e da prendere in pochissimo tempo. Stavolta lo spettatore viene introdotto alle dinamiche di potere nella stanza dei bottoni per antonomasia, quella del governo statunitense.
Nell’incipit una didascalia ci avverte che il periodo post guerra fredda è terminato. Una manciata di scene dopo saremo informati della scoperta di un missile d’ignota provenienza e contenente una testata nucleare, lanciato contro gli Stati Uniti. La Presidenza, il Pentagono, l’Esercito e le unità di crisi del Paese hanno meno di venti minuti per capire come reagire. Dopo che il tentativo di abbattere il missile fallisce, la catena di comando va nel panico. Un giorno come tanti diventa quindi il giorno a rischio Armageddon.
Difficile pensare a un’ipotesi più sciagurata, apocalittica e, al contempo, verosimile.
La trama si concentra sulla finestra temporale immediatamente precedente all’eventuale impatto; il focus è sulle dinamiche interiori e interpersonali di quei pochi individui che hanno la responsabilità del destino di quasi tutta l’umanità.
Nel gioco al massacro secondo il quale a ogni azione corrisponde una controreazione, mettere sotto scacco gli Stati Uniti significa del resto avere in ostaggio il mondo intero. Poco interessa chi abbia acceso la miccia, il tempo stringe e nessuno è pronto. La propria difesa può comportare la distruzione totale, il che è un paradosso tanto folle quanto reale.
Analisti ed esperti, ognuno caratterizzato con qualche pennellata circa il suo vissuto quotidiano e personale, si trovano a silenziare lo sgomento istintivo ponendosi al servizio del processo decisionale. I personaggi al potere sono impotenti, dilaniati tra l’istinto di comunicare coi propri cari e quello di restare concentrati sulla salvezza pubblica.
Il “what if?” al centro del film è la stessa spada di Damocle dell’annientamento che pende sopra le nostre teste nell’epoca attuale. Il titolo, “A House of Dynamite”, si riferisce infatti al mondo intero, una casa in cui otto miliardi di persone vivono dimentiche che sia imbottita di esplosivo. In una compagine internazionale così capillarmente armata è diventato quasi impossibile riconoscere il vero nemico e molto probabile scomparire in una manciata di minuti.
Il girato è frammentato in tre parti, angolazioni diverse degli stessi minuti di una riunione via zoom tra i vertici governativi. Sono segmenti a incastro dalla costruzione nitida e che sfumano l’uno nell’altro, portando ciascuno a conclusione la traiettoria del missile senza però mostrare l’impatto.
Puntuale e particolareggiata la ricostruzione dei protocolli ufficiali, acuta e lucida quella dell’incertezza e dell’imperfezione umana. L’ottimo sound design scandisce il passare dei minuti in modo ansiogeno e disturbante pur restando spesso sottotraccia.
In definitiva “A House of Dynamite” è un film che mette i brividi coniugando un’osservazione quasi documentaristica, la tensione del miglior cinema action e l’acutezza di un
thriller politico contemporaneo; ma soprattutto è il ritratto della disperazione silenziosa di chiunque intuisca la fragilità del potere e l’illusione del controllo.Nel cast spiccano Rebecca Ferguson e Idris Elba.