da Los Angeles
Dal tappeto da wrestling ai red carpet di Hollywood: da una parte Mark Kerr, dall’altra Dwayne Johnson. Due uomini che hanno scelto di combattere per vivere ma le cui strade, pur partendo da uno stesso istinto di sopravvivenza, hanno preso direzioni molto diverse.
Kerr, nato in Ohio nel 1968, è stato un prodigio della lotta libera: campione statale al liceo, poi campione Ncaa nel 1992 alla Syracuse University. Quando il sogno olimpico gli sfuggì per un soffio, decise di entrare nel mondo allora brutale e poco regolamentato delle arti marziali miste. In breve tempo divenne «The Smashing Machine », ma dietro le vittorie, si nascondeva il prezzo della violenza: la dipendenza dagli antidolorifici, la fragilità psicologica, una vita privata segnata dagli eccessi, il crollo. Invece Dwayne Johnson, nato in California nel 1972, proviene da una famiglia di lottatori: suo padre Rocky Johnson, suo nonno Peter Maivia. Dopo un tentativo nel football professionistico, interrotto dagli infortuni, nel 1996 è entrato nel mondo del wrestling con il nome di Rocky Maivia, per poi diventare semplicemente The Rock. Con carisma e autodisciplina ha trasformato quel ring nella rampa di lancio per Hollywood: dal 2001, con The Mummy Returns e l’inizio della saga di Fast & Furious , fino a diventare uno degli attori più pagati e amati del pianeta. Li unisce lo stesso linguaggio, quello del corpo, della forza. Entrambi hanno fatto della lotta un mestiere e un’identità. Ma mentre per Kerr il combattimento è stato una prigione che lo ha spinto verso l’autodistruzione, per Johnson è diventato un mezzo di riscatto e reinvenzione. Ora, con The Smashing Machine , film diretto da Bennie Safdie ( Uncut Jems ) nelle sale italiane dal 19 novembre, Dwayne porta sullo schermo la storia di Mark, accanto a Emily Blunt nel ruolo della compagna Dawn Staples. Davanti al pubblico del Dga Theater, Johnson ha raccontato come ha dato vita al protagonista.
Come ha fatto Dwayne Johnson, il gigante buono di Hollywood, a vestire i panni di un uomo distrutto dalla propria forza?
«Sono io che ho proposto questo lavoro a Benny – spiega l’otto volte campione Wwe – poi è arrivato il Covid. Lui mi ha risposto con una bella lettera, che per motivi di sicurezza non mi è stata consegnata. Poi per fortuna ho incontrato Emily Blunt, che aveva lavorato con lui in Oppenheimer . Lei mi ha detto della sua risposta e che era entusiasta di poter lavorare con me. È passato un po’ di tempo ma alla fine le cose succedono sempre nel momento giusto».
Questa pellicola l’ha obbligata a uscire dalla sua zona di comfort?
«Ho avuto una carriera fantastica, non posso lamentarmi, però volevo spingermi oltre ai miei limiti. Conoscevo Mark dagli anni ’90, quando si diceva fosse il lottatore più forte al mondo. Ai tempi ero un ragazzino con un curioso taglio di capelli che provava a sfondare nel wrestling. Mi entusiasmava l’idea di rendergli omaggio».
C’è una scena molto forte, in cui Mark e la moglie litigano in bagno e lui la stringe con forza mentre lei tenta il suicidio. Ci può raccontare come l’avete girata?
«Credo che sequenze come questa verranno considerate il marchio di Benny Safdie. Ma la ripresa ci ha letteralmente consumati».
In che modo l’ha colpita questa scena?
«Ero abituato a lanciare in giro uomini di 150 Kg, non ho problemi a rompere lo spazio personale altrui. Ma quando ho dovuto stringere a me Emily così forte, non lo avevo mai detto a nessuno, ho provato una sensazione mai provata prima. Obbligare una donna a stare immobile, contro la sua volontà, mi ha distrutto emotivamente. È stato orribile, ci ho messo novanta minuti a riprendermi ».
Cosa la rende orgoglioso di questo film?
«Si tratta di una storia vera
su persone che sono ancora in vita, non succede spesso. Sono fiero del fatto che abbiamo ricordato al mondo che puoi perdere una battaglia, puoi venire sconfitto, ma se continui a lottare alla fine le cose andranno bene».