Cinismo e bugie. I consigli di Cicerone per essere eletti

Anno 63 a.C.: la campagna elettorale a Roma è particolarmente accesa. Ad aiutare l’illustre avvocato Marco Tullio Cicerone è il fratello Quinto, autore di un prontuario di propaganda elettorale (Commentariolum petitionis) che vale ancora oggi, a duemila anni di distanza, per i consigli di pragmatismo e cinismo. Tanto moderno che viene oggi riproposto in una nuova edizione: Quinto Tullio Cicerone, Manualetto di campagna elettorale (Salerno, pagg. 280, euro 16). Giulio Andreotti, nella prefazione, lo giudica «straordinariamente interessante ... anche per una sorta di imprevedibile attualità delle situazioni che descrive».
In particolare c’è una cosa su cui insiste molto Quinto: largheggiare nelle promesse, fino a sbilanciarsi e a rendere ambigua la linea di demarcazione tra la figura del candidato e quella dell’uomo onesto. Il politico, insomma, deve spingersi oltre i confini della virtus e piegare ai propri interessi concetti come quello della amicitia. Snaturandola un poco, rispetto a quel che Cicerone scrisse nel De amicitia. Quinto suggerisce un’amicitia più elastica: scambio di favori, manifestazione di simpatia anche quando i presupposti vacillano. L’obiettivo è il consenso, a costo anche di fare promesse difficili da mantenere. Pressoché obbligatorio, poi, l’uso della simulazione. Così Quinto avverte il fratello candidato: «Tu puoi in piena onestà - ciò che non ti sarebbe consentito nel resto della vita - ammettere alla tua amicizia tutti quelli che vuoi, mentre se in altre circostanze cercassi di farteli amici, parresti agire dissennatamente».
Oltre al carattere, Cicerone aveva dalla sua l’eloquenza. Apprezzatissima nella Roma antica, ma non sufficiente ad ottenere il consensus omnium bonorum. Blandire, si diceva, cercare amicizie. Quinto consiglia di tenere la casa aperta di giorno e di notte, essere cioè ospitali e disponibili, mostrarsi generoso, senza ostentare però la ricchezza. I romani odiavano i parvenues. Cicerone questo lo sapeva. E lo aveva anche scritto: «Il popolo romano detesta il lusso privato, ma ama la magnificenza pubblica; non gradisce gli sperperi per i banchetti, ma ancor meno la tirchieria e la rozzezza». Quinto lo spinge a ricordare a tutti coloro che in qualche modo aveva favorito, magari facendoli assolvere in tribunale, quel concetto importante che è la gratia, la riconoscenza in cambio di un beneficium. Gratia e amicitia in politica devono diventare sinonimi.
In quanto al cinismo, infine, bisogna dire che i due fratelli erano imbattibili, sempre d’accordo nell’individuare i vitia degli avversari, scavando nella loro vita privata. Se Catilina era di famiglia povera e dissoluta, bisognava dirlo a gran voce, come pure irrobustire il sospetto che andasse a letto con la sorella e fosse troppo amico di gladiatori e attori, compagni di merende e di lussuria. Divulgare notizie e insinuazioni, d’accordo.

Ma occorreva spingersi fino all’intimidazione. In modo subdolo, balenando cioè il probabile uso di strumenti giudiziari. Cicerone, del resto, era maestro nel puntare il dito contro, dentro e fuori delle aule di tribunali. Fino alla completa rovina degli avversari.

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