Ci sono volute nove interminabili ore, condite di scontri e ripensamenti. Ma alla fine anche la Cassazione ha dovuto arrendersi alla stessa evidenza davanti alla quale si erano arresi nel luglio dello scorso anno i giudici della Corte d'Appello di Milano: ed erano anche allora, come ieri, giudici difficilmente sospettabili di simpatie verso l'imputato. Ma l'evidenza delle carte parlava chiaro, ed era che - qualunque cosa si creda e si pensi su quanto accadeva nelle feste di Silvio Berlusconi nella sua villa di Arcore - il processo per il caso Ruby era un colosso su piedi di fango, un gigantesco mostro giudiziario privo dei requisiti fondamentali per stare in piedi. Che non sono le valutazioni etiche ma le prove, le prove dei reati commessi.
Già in luglio, quando la Corte d'Appello di Milano assolse con formula piena Berlusconi, spazzando via i sette anni di carcere che gli erano stati inflitti in primo grado, in una opinione pubblica eccitata per anni dai reportage giudiziari si colse un certo disorientamento. Eppure chi si fosse preso la briga di leggere le carte avrebbe visto quello che i giudici d'appello avevano trovato evidente, e che la Cassazione conferma ieri: che sui due punti chiave del processo non c'erano elementi per arrivare alla condanna. Non c'era la prova che Silvio Berlusconi conoscesse la vera età di Ruby, quando la ragazzona marocchina arrivò insieme a Emilio Fede nella sua villa di Arcore: a meno di non voler considerare una prova, come ha cercato di fare nel suo ricorso la procura generale di Milano, le chiacchiere al telefono della stessa Ruby, sperse in un mare di bubbole conclamate e di fantasticherie, e di millanterie; o di elevare a rango di prova le deduzioni logiche, quelle secondo cui se Emilio Fede sapeva allora sapeva anche il Cavaliere, perché «la minore età, stando ai precedenti, non avrebbe ragionevolmente formato oggetto di negativo apprezzamento da parte di Berlusconi».
È su questa evidenza che ieri sera si affossa definitivamente il processo Ruby, e le lunghe ore passate dai giudici in camera di consiglio sono, a questo punto, solo la testimonianza di uno scrupolo estremo. E lo stesso vale anche per l'altro capo d'accusa, quello sulla telefonata in Questura: la presunta induzione di cui sarebbe stato vittima il vicequestore Pietro Ostuni, che però di pressioni o costrizioni mai ha parlato, eppure non è stato indagato per falsa testimonianza; e d'altronde leggendo il ricorso della procura generale non si capiva se per la pubblica accusa Ostuni fosse vittima o complice di Berlusconi, o se invece, più semplicemente, come scrissero l'anno scorso i giudici di appello, si limitò a ricevere una richiesta, e fare poi ciò che faceva in mille altri casi identici.
Una inchiesta condotta con potenza di mezzi quasi militare si sgonfia dunque definitivamente: e bisogna ricordare che la Procura di Milano chiese e ottenne addirittura il giudizio immediato sostenendo che la prova della colpevolezza era «evidente»; che la assenza di prove certificata ieri dalla Cassazione non impedì a Ilda Boccassini di chiedere la condanna dell'imputato a sei anni di carcere, né ai giudici di primo grado di andare ancora più in là, e di rifilare a Berlusconi sette anni; e l'assenza di prove non ha impedito che chiunque si sia presentato nell'aula del processo di primo grado a favore di Berlusconi venisse incriminato per falsa testimonianza e corruzione, e si trovi oggi insieme a Berlusconi al centro di una nuova inchiesta, di cui è lecito chiedersi con che coraggio potrà andare avanti, ora che si può dire con certezza che il processo che sarebbe stato inquinato aveva per
imputato un innocente. Certo, l'inchiesta andrà avanti, perché è l'ultima chance che la Procura di Milano ha ancora in mano per incastrare il Cavaliere: ma da ieri sera la strada per l'accusa si è fatta decisamente più impervia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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