L'ultimo pugno di Nino. Dalla vergogna titina alla difesa sul ring degli italiani d'America

Addio a Benvenuti, icona italiana nel mondo: l'oro a Roma '60 e i titoli iridati. Poi tv e cinema

L'ultimo pugno di Nino. Dalla vergogna titina alla difesa sul ring degli italiani d'America

Il gancio sinistro. Il montante destro. Le mani di Giovanni Nino Benvenuti, oggi infine unite per l'uscita da una vita comunque lunga e affollata di cose belle, come non fu la sua infanzia e poi adolescenza, aspre giornate grigie, italiani perseguitati dalle violenze degli slavi, la vergogna titina che viene ancora nascosta ed evitata dai vili che non sanno usare i guantoni e si rifugiano all'angolo della storia. Quella fetta di esistenza servì a costruire, a modellare il ragazzo che divenne uomo e pugile, portandosi appresso la rabbia e la voglia di reagire ai soprusi. Quattro fratelli e una sorella, una famiglia agiata, una piccola villa come dimora, prima che l'aria si facesse velenosa e le vendette colpissero i nostri connazionali.

Aveva l'età dei brufoli, dodici anni e qualcosa quando, all'Isola d'Istria, il paese suo di nascita, si divertiva a tirare cazzotti a un sacco di iuta, gonfio di frumento che lui aveva appeso ad una trave della cantina, per proteggersi si era inventato un paio di calzettoni di lana grossa a fasciare le mani, la fantasia di racconti d'oltre oceano gli suggerì di allestire un ring fatto con una corda ad avvolgere le colonne di cemento, più che un quadrato era un triangolo, il teatro dei suoi sogni. Il nonno, Francesco il nome, gli aveva trasferito la passione che poi Fernando, il padre di Nino, aveva praticato in palestra, alternando la boxe al mestiere di pescivendolo. Benvenuti raccontò come ebbe termine quella pratica paterna, fu per colpa di un pugno che Fernando sferrò in pieno sul naso di Massimo Bin che era un pugile alto e grosso, categoria pesi massimi, i due stavano giocando usando i guantoni ma poi il Bin finì al tappeto, cioè sul pavimento di casa, il sangue uscì copioso e a forza di strofinare le narici, si ritrovò con un livido all'occhio, nel panico generale di parenti e affini presenti alla contesa involontaria. E così Fernando si dedicò esclusivamente al pesce e Nino capì che la boxe era, e sarebbe stata ancor di più, una cosa seria.

C'è sempre una fetta di favola nei ricordi di un tempo lontano che si presta al romanzo, a Isola d'Istria si parlava di football e di canottaggio, la società Giacinto Pullino aveva vinto le Olimpiadi del '28 ad Amsterdam con il quattro con (Perentin-Deste-Vittori-Delise più Petronio timoniere) i soci decisero di aprire anche al pugilato e fu un reduce della guerra, Luciano Zorzenon uno dei palombari che era stato impiegato nel recupero del Rex, a riunire un gruppo di ragazzi ed avviare una scuola di pugilato. Nino ci sapeva fare, era veloce di cervello e agile nei colpi, anticipava l'azione dell'avversario, buona difesa e attacco fulmineo, sul tempo, a tredici anni sconfisse un sedicenne, ne ricordava il cognome, Tonella. A scuola non male, il ginnasio non completato per colpa degli slavi ma nessuna rinuncia vera se non quella di giorni passati guardandosi alle spalle, ascoltando il brusio cattivo di chi odiava gli italiani. Nino andava in palestra, come aveva fatto Fernando, era questa la sua scelta.

A diciassette anni Trieste accolse l'esule, insieme con altri sfollati, i racconti di sport parlavano di Primo Carnera, il gigante di Sequals, cronaca e leggenda, Nino studiava l'arte nobile, disegnava le sfide sul ring. Una sola sconfitta negli oltre cento incontri da dilettante. Era bellissima Roma in quell'estate del Sessanta. Nico salì sul ring e vinse l'oro olimpico nella categoria pesi welter battendo il sovietico Radonjak poi scomparso dai radar, fu, Nino, il pugile più elegante e bello, proprio così, al punto da togliere la coppa Baker, riservata al migliore di tutti, il rivale per il troefo si chiamava Marcellus Cassius Clay.

La medaglia dei Giochi fu la prima pagina di un libro meraviglioso, per lui, per la boxe e per lo sport italiano. Nino Benvenuti divenne l'idolo di tutti, la gente riempiva le piazze e i ritrovi durante le radiocronache notturne dei match negli Stati Uniti. Dunque Emil Griffith, dunque il Madison Square Garden, il tempio nel quale si celebrava il pugilato e venivano eletti i campioni del mondo. Paolo Valenti narrò quell'incontro, il buio delle notti italiane venne illuminato dalla vittoria di Nino, là, a New York c'erano migliaia di immigrati italiani a vivere il sogno del riscatto, Brooklyn prese a parlare triestino, Griffith disse che Benvenuti aveva vinto in casa. Era il 1967. Lo avrebbe incontrato altre due volte, una sconfitta e un'altra vittoria.

Venne la gloria, venne la popolarità pubblica, la televisione e il varietà, il cinema con Giuliano Gemma commilitone tra i pompieri, fotografie veloci di nuova vita, opinionista bordo ring per la Rai, l'esule era un atleta perfetto, peso medio di chilogrammi 74, altezza 1 metro e 79 centimetri, la zazzera si era trasformata in ondame liscio e la dentatura era bianchissima che su quella bocca poteva dire ciò che voleva, anche se la sua fede politica creava fastidi, era considerata contro tempo come certi suoi colpi sul ring. Vennero due matrimoni, quattro figli, un altro ebbe un epilogo tragico, un combattimento e una sconfitta non previste. Venne anche Carlos Monzon e fu come un altro libro, la fine del romanzo e l'inizio di una storia più cruda perché l'argentino aveva più chili e muscoli e più rabbia violenta, Montecarlo non ebbe il fascino del Madison, la folla che sognava nelle notti newyorkesi conobbe, dopo lo zucchero, il sapore del sale.

Il derby con Mazzinghi alimentò cronache nostrane, stile contro forza, comunque pugni italiani e screzi condominiali poi ricuciti quando Sandro si ammalò, così come accadde con Carlos, l'indio argentino. Joe Louis disse «Una volta suonata la campana devi cavartela da solo». Nino ha atteso l'ultimo gong dopo una vita conclusa nel silenzio. Da qualche parte ci sarà ancora quel sacco di juta gonfio di frumento.

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