Cinque quesiti ai dirigenti della Quercia

Pietro Mancini

«Questa sinistra è senza ricette per il futuro e sogna un altro mondo per non dover riformare questo». L’impietosa diagnosi del filosofo André Glucksmann sui socialisti francesi che potrebbe adattarsi anche alla situazione molto difficile del principale partito della sinistra di casa nostra, i Ds. L’impressione, sempre più diffusa tra i militanti e gli osservatori, è che dopo aver rinunciato alla leadership del centrosinistra delegata a Romano Prodi, i dirigenti diessini abbiano ormai perso la capacità di orientare e di mobilitare l’elettorato progressista con le proprie autonome proposte. Come il destino del Ps francese, squassato dalle lotte tra le correnti, potrà essere deciso positivamente solo dagli errori dei gollisti di Chirac, così in Italia la sinistra sta facendo il «catenaccio» e sta giocando di rimessa, sperando che l’elettorato punisca il centrodestra. Rinunciando a coinvolgere a tutto campo l’opinione pubblica nei suoi obiettivi, che neppure si conoscono con precisione, tanto che il politologo Panebianco li ha definiti «le priorità inesistenti».
In Francia da un recente sondaggio è scaturito che oltre il 57 per cento degli intervistati non considera il partito socialista una forza moderna e propositiva e il 59 per cento ritiene che non svolga bene il suo ruolo di opposizione. Qualcuno, forse, può negare che anche la Quercia sia una forza tendenzialmente conservatrice, che non si è mai degnata di studiare i programmi innovatori di Tony Blair?
Ma D’Alema e Fassino non si rendono conto che non è possibile entusiasmare gli elettori, indicando loro la costituzione postelezioni di un gruppo unico dei partiti e dei cespugli dell’Unione alla Camera e al Senato? Se, d’altronde, è ben comprensibile e non campata in aria l’irritazione dei diessini, che sono stati determinanti alle primarie per l’investitura del Professore, contro i prodiani non è certo sufficiente il niet di Vannino Chiti, stretto collaboratore del segretario, ai «processi giacobini» che verrebbero intentati contro Fassino e compagni. Anzi, questo vittimismo rischia di accreditare nel popolo ulivista l’idea dell’ostinato rifiuto del vertice del Botteghino a ogni progetto di rinnovamento della politica e di autoriforma dei partiti e delle attuali burocrazie, considerate da Parisi, e non solo da lui, come un freno al rapporto con la società civile.
Qual è l’idea guida del vertice della Quercia? Non basta - come hanno fatto i capi dei Ds e della Margherita nel Big Talk rutelliano di Milano, amplificato dal Corriere ma disertato da Parisi e dai prodiani - proclamare una «fortissima unità d’intenti», sinora mai concretamente dimostrata.

Perché, invece di logorarsi in estenuanti polemiche con i seguaci dell’ex presidente demitiano dell’Iri - che è stato omaggiato da Fabio Fazio su Raitre - ultime quelle sui finanziamenti e sul no alla pretesa del Professore di capeggiare il listone Ds-Margherita in tutta Italia, D’Alema e Fassino non rinunciano alle logoranti mediazioni sui nodi più intricati, e non svelano con chiarezza i propri disegni? Il «riformismo del popolo», a cui si richiama sempre nelle sue ispirate esternazioni il sindaco di Roma Veltroni, intende concretamente attuarlo anche con i tantissimi funzionari del suo partito? Forse Veltroni potrebbe anche tentare di spiegare e non solo ad André Glucksmann, le ragioni profonde che spingono milioni di giovani emarginati dalle asfittiche segreterie dei partiti della sinistra, in Francia come in Italia, a sostenere con convinzione che nei salotti del Potere come nelle assemblee delle organizzazioni progressiste, la parola «libertà» si ascolti, ormai, sempre più raramente.

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