La clinica dei geni incompresi

A ll’estero li chiamano «gifted», da «gift» che significa «dono». Sono i bambini più rapidi, meno prevedibili, non omologabili ai loro coetanei. A tre anni sanno già leggere, conoscono i numeri, possiedono un linguaggio articolato, e sono così numerosi che per loro, in molti Paesi europei, sono stati pensati regolamenti, politiche di sostegno e campi estivi. In Italia li chiamano «plusdotati» o (impropriamente) «bambini prodigio», e non esistono linee guida né percorsi scolastici ad hoc. A prendersi cura di loro è solo un centro che, all’università di Pavia, li aiuta a sviluppare il loro alto potenziale. È il «Laboratorio di ricerca/intervento sul talento e la plusdotazione»: il primo esperimento in Italia per lo studio e il sostegno dei piccoli geni incompresi.
«Si crede che i talenti non abbiano bisogno di aiuto. Invece, tutti coloro che possiedono abilità diverse, superiori o inferiori che siano, incontrano grandi difficoltà». Neuropsicologa e coordinatrice del centro, Anna Maria Roncoroni da dieci anni si occupa di bambini con talenti superiori alla media. «Paradossalmente il problema maggiore è l’abbandono degli studi: questi ragazzi, avendo un ritmo più rapido di apprendimento, in classe si distraggono, disturbano o tendono a isolarsi. La scuola, di contro, tende a omologarli o emarginarli perché diversi». Nei singoli Paesi la percentuale di plusdotati varia dal 5 all’8% degli studenti: di questi il 20-25% ha problemi di inserimento scolastico. «In alcuni casi, addirittura, vengono etichettati come soggetti iperattivi, patologici, da sottoporre a cure farmacologiche» sottolinea l’esperta. Da qui, nel gennaio 2009, l’idea di fondare un centro che si occupasse di ricerca, ma anche di assistenza. Tre le aree di intervento: un servizio di valutazione del ragazzo per stabilire il potenziale; la consulenza alla famiglia attraverso un call center e visite in sede; e corsi di formazione agli insegnanti. Ma come riconoscere un bimbo plusdotato? «Con un insieme di prove che toccano l’intelligenza, le abilità logico-matematiche e la creatività. Il talento può non essere "accademico" e questo spiegherebbe il basso rendimento in classe» spiega Roncoroni. Come nel caso di Matteo, 12 anni e quattro scuole alle spalle, cambiate a suon di bocciature, richiami e sospensioni. È arrivato al centro segnato da un marchio di «iperattività». Ne è uscito con un certificato che recita: quoziente intellettivo superiore alla media.
La storia, del resto, è colma di uomini geniali nelle arti e nelle scienze, nonostante un’infanzia da «somari». Albert Einstein, da bambino, non solo disprezzava la scuola al punto da abbandonarla prima ancora di ottenere la licenza media, ma quando con un sotterfugio cercò di essere ammesso al Politecnico di Zurigo, non riuscì nemmeno a superare gli esami di ammissione. Una sorte analoga toccò all’autore di «Madame Bovary»: iscritto alla facoltà di diritto, che detestava, Gustave Flaubert interruppe gli studi senza mai conseguire la laurea. E chi mai avrebbe scommesso su Claude Debussy, musicista strepitoso, ma che commetteva imperdonabili errori di ortografia? O su Pablo Picasso, che abbandonò l’accademia di Madrid al primo anno delle superiori? Talenti incompresi. Perseguitati, derisi, vilipesi in età scolare. Apprezzati, elogiati e presi a esempio negli anni a venire. «Per aiutarli – continua Roncoroni - raccomandiamo ai genitori di non mettere i figli davanti al computer, ma di coinvolgerli in giochi all’aperto, manuali o di società; agli insegnanti, invece, consigliamo di proporre ai ragazzi laboratori ed esercizi mirati, con più livelli di difficoltà. Sarebbe un buon modo per stimolare i talenti e metterli al servizio del Paese».

Come è stato per il matematico australiano Terence Tao, che a 17 anni si è laureato, a 24 è diventato professore all’università di Los Angeles e a 31 ha vinto la medaglia Fields, l’equivalente del Nobel. Da noi, a quell’età, non avrebbe nemmeno una cattedra.

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