Roma - Palla a Silvio. «Tocca al presidente del Consiglio, nell’annunciato intervento alla Camera, indicare la soluzione per condurre alla dovuta approvazione del rendiconto». Discorso in aula, dibattito, voto di fiducia, questo quindi il percorso suggerito da Giorgio Napolitano per far uscire il governo dalla secca. Niente dimissioni e nessuna convocazione sul Colle, almeno per il momento. Certo, sulla tenuta della maggioranza ci sono forti dubbi, «interrogativi e preoccupazioni», ma non c’è (ancora?) materia per chiedere al Cavaliere di farsi da parte.
La crisi, se non scongiurata, quantomeno si è allontanata: Napolitano non intende forzare la mano e il centrosinistra se ne farà una ragione. Il capo dello Stato lo spiega direttamente a Gianfranco Fini, salito nel pomeriggio al Quirinale per metterlo, come si legge in un comunicato, «al corrente delle ragioni che, ad avviso dei presidenti dei gruppi parlamentari di opposizione, rendono politicamente complesso il superamento della situazione» dopo il naufragio martedì dell’articolo uno della legge del bilancio consuntivo. Appunto, la cosa è «complessa ad avviso dell’opposizione» ma non evidentemente del presidente della Repubblica. Per lui, al di là dell’intreccio giuridico in cui il governo si è cacciato, «l’approvazione del rendiconto è dovuta».
Dunque, ci pensi il Cav a trovare il modo. Ma un modo va trovato. Funzionerà? Sarà un pastrocchio? Questo non è al momento un problema del capo dello Stato. «Sulla sostenibilità di tale soluzione sono competenti a pronunciarsi le Camere e i loro presidenti». E così Gianfranco Fini, che si è arrampicato sui tornanti di Via IV Novembre per esporre a Napolitano l’impossibilità di andare avanti, un’oretta dopo deve scendere a valle con in tasca soltanto un «grazie per avermi informato».
Tutto ciò non significa che Berlusconi sia già riuscito a raddrizzare la barca, e nemmeno che la non belligeranza del Colle durerà in eterno. Il capo dello Stato infatti è preoccupato e parecchio innervosito. Ce l’ha con il premier, che non riesce a tenere unite le sue truppe e a «prendere le misure dovute» per sistemare i conti pubblici. «La questione è se la maggioranza ricomposta a giugno è in grado di garantire soluzioni adeguate ai problemi del Paese». Ce l’ha con l’opposizione: l’ipotesi-Aventino pare l’abbia fatto infuriare.
Ma ce l’ha anche con Giulio Tremonti. Fino a pochi mesi tra i due c’era un buon rapporto, ora invece nei confronti del superministro è segnalata un’irritazione crescente. Alle perplessità del Quirinale sui ritardi nelle contromisure contro la crisi, si è aggiunta l’impuntatura di Tremonti sulla nomina del nuovo governatore della Banca d’Italia. Napolitano, Berlusconi, d’accordo con Draghi e il consiglio superiore di Palazzo Koch, si erano già orientati sul direttore generale Fabrizio Saccomanni. Finché Tremonti, spalleggiato da Bossi, non ha deciso di mettersi di traverso per sostenere la candidatura alternativa di Vittorio Grilli.
Napolitano ovviamente non ha gradito: un braccio di ferro politico per Bankitalia non è davvero un buon messaggio per i mercati. E forse nemmeno gli sono piaciute certe oscillazioni sulla manovra, come ha detto in questi giorni parlando della «gestione dell’economia». E se poi l’assenza del superministro dal voto sul rendiconto è un complotto e non una banale incidente...
Questo perché il capo dello Stato ritiene che, in un momento simile di tempesta, la stabilità del quadro sia una condizione essenziale per salvare il Paese. La stabilità però non è fatta di soli numeri: arrivato alla fiducia numero 53, il Cavaliere deve dimostrare una volta per tutte non solo di essere in sella ma di governare. «Ho finora sempre preso imparzialmente atto - dice il presidente - della convinzione espressa dal governo e dai gruppi parlamentari che lo sostengono della solidità della maggioranza anche attraverso reiterati voti di fiducia».
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