Politica

Le colpe dei banchieri e quelle dei politici

Figurarsi se ci preoccupiamo del possibile scontro istituzionale tra governo e banche. Spesso zittire i contrasti alimenta il conflitto più che calmarlo. C’è poco da scandalizzarsi nel crescendo di polemica tra il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e la categoria, difficilmente identificabile nella sua vastità, dei banchieri. Tremonti ogni giorno lancia una provocazione. Per la verità la sua polemica nacque in tempi lontani, quando a governare la Banca d’Italia c’era Antonio Fazio e l’allora ministro teneva polemicamente sulla sua scrivania una barattolo di conserva Cirio. Il ministro ha aggiunto al suo carnet di «nemici» anche gli economisti, rei di non aver previsto la crisi, ma di continuare a pontificarne sopra. Posizioni che hanno una grande ragionevolezza: i banchieri sempre considerati degli intoccabili indipendentemente dagli errori, e gli economisti, come nota bene uno di loro, Zingales, poco inclini all’autocritica.
Ieri da Londra ha rincarato la dose: «Non è possibile che le banche comandino sui governi e sulla politica». Sempre da Londra è giunto un messaggio congiunto del G20 di introdurre un limite alle gratifiche che i banchieri con generosità si autoriconoscono. In tutto il mondo la tendenza a demitizzare il ruolo del banchiere è comprensibilmente forte. Poco importa lo strumento utilizzato per colpirli: il controllo dei bonus per via politica rappresenta chiaramente una caduta demagogica. E in alcuni casi, come in quello americano, non si capisce per quale motivo da una parte l’amministrazione centrale lotti contro i bonus e dall’altra la stessa amministrazione foraggi con danaro pubblico i vecchi banchieri affinchè i loro uffici non falliscano. Invece di occuparsi delle gratifiche non sarebbe stato più opportuno liberarsi completamente di una generazione di banchieri che hanno creato i pasticci della crisi finanziaria? Ebbene questo non è certo il caso italiano: in cui le banche non hanno preteso, fino ad oggi, neanche un euro pubblico.
Il problema dunque è che il furir tremontiano non si sviluppa a Washington, ma tra Roma e Milano. Davvero le nostre banche sono causa della crisi? Qualcuno crede davvero che le banche abbiano condizionato la politica? O non è successo piuttosto il contrario? Si può rimproverare molto al nostro sistema creditizio: la sua arretratezza, la sua ipocrisia (vero signor Passera? perchè quando biasima l’eccesso di gratifiche aziendali non ricorda quelle che Lei ha ricevuto?) e l’onerosità per i correntisti. Ma pensare che la crisi economica italiana dipenda dal settore bancario è una semplificazione che non regge.
Vi è un altro elemento di debolezza nella polemica tremontiana nei confronti delle banche. Il governo di cui è tra i principali esponenti, è forse uno dei pochi della storia repubblicana ad avere pochi contatti con il milieu bancocentrico. Proprio sul Giornale, ci divertimmo anni fa ad elencare tutti i banchieri che si erano messi in fila per le primarie della sinistra. Soltanto Cesare Geronzi (oggi numero uno di Mediobanca) ne aveva fatto a meno. Per il resto fu un rincorrersi davanti ai gazebo democratici: una categoria che in genere tende a non mostrarsi neanche al cinema, si mise diligentemente in fila. Questo governo, e Tremonti lo sa meglio di tutti, non ha alcun debito nei confronti del sistema bancario, e non potrà esserne mai condizionato. È, per così dire, geneticamente altra cosa rispetto al potere creditizio.

Se ciò però porta ad un sberleffo continuo, si rischia di perdere di vista l’obiettivo finale, che non può ridursi alla distruzione del sistema bancario italiano.

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