«Com’era effervescente la città del boom, vista in bianco e nero»

La fotografa Carla Cerati ricorda quando la sua Nikon «fermava» volti e luoghi, dai Navigli alla Rinascente

Due giovani che ballano in un dancing, il Naviglio Grande prosciugato per la pulitura, un vecchio chino sul bastone sotto la scritta «Albergo Popolare», una bambina pronta per il saggio di danza, un soldato in libera uscita con la fidanzata, studenti in Vespa, case di ringhiera, scolari col grembiulino nero e il colletto bianco, il reparto giocattoli della Rinascente. C'è vita, verità, passione nelle foto di Carla Cerati scattate nel decennio del boom 1960-70, una professionalità, unita a quella di scrittrice, riconosciuta in varie mostre e pubblicazioni.
«I miei anni Sessanta - racconta la Cerati - sono in queste immagini. Nel 1960, con la Nikon appesa al collo, ho percorso la città, per sapere come vivevano gli altri. Volevo leggere Milano, fissare sulla pellicola ogni suo particolare, persone, case, vie, oggetti, paesaggi. Un fotografo è un testimone del proprio tempo. Una vocazione artistica che, dopo l’Accademia di Brera è continuata da fotografa di scena di Franco Enriquez. Milano allora mostrava effervescenza, il suo dinamismo. La fisionomia urbanistica e la costruzione della prima linea della metropolitana rispecchiavano il nuovo volto che stava assumendo. L'ho sempre amata, sentita come mia. Quegli anni hanno rappresentato per me un cambiamento, la possibilità di uscire di casa, di guardare com'è fatto il mondo».
Oggi conserva il medesimo stato d'animo?
«Milano è divenuta irritante, faticosa, stravolta dai cantieri e dalle strade divelte, lavori che se fossero organizzati bene potrebbero dare l'idea di una città in continua evoluzione. In realtà è stato creato un gran pasticcio...».
La Milano allora era il «cammino della speranza» per i tanti lavoratori che giungevano dal sud.
«In gran parte è vero, ma non dimentichiamo che “i terroni” non erano sempre accolti col cuore in mano. Ricordo le case che non venivano affittate ai meridionali. I pregiudizi non mancavano».
Fra i giovani esisteva una maggiore serenità, non c'era il disagio esistenziale dei nostri tempi...
«Siamo stati fortunati perché non esisteva la droga. La droga ha distrutto una generazione, una tragedia che ho vissuto in prima persona: un mio giovane assistente, tossicodipendente, si è suicidato nel mio studio. Ci sono stati momenti durissimi».
Era quindi più facile educare i figli...
«I miei due figli mi rimproverano di avergli fatto mancare nell'infanzia la Nutella e la televisione, che non volevo tenere in casa, malgrado fosse molto seguita. Non volevo ridurmi come altre madri che dicevano ai loro bambini: “Se non fai i compiti non vedi Carosello”. Per la mia generazione un fatto importantissimo è stato il Sessantotto. Mio figlio faceva parte del Movimento studentesco e io lo comprendevo, pur non essendomi mai occupata di politica, sia pure con qualche simpatia per i radicali di Pannella che ha condotto delle battaglie giuste...».
Arriviamo al femminismo, che forse lei condivideva...
«Non ho mai fatto parte di un movimento femminista. Seguivo le manifestazioni fotografandole, anzi qualche femminista storica mi ha guardato con sospetto. È però indubbio che il femminismo è stata una grossa scoperta. Mi sono resa conto che il mondo maschile ci ha per tanti anni schiacciate».
Vuol dire che la condizione femminile negli anni ’60 era così penalizzata?
«Pensi che il mio romanzo Un matrimonio perfetto, poi finalista al Campiello, una storia d'amore che finisce male, fu rifiutato dalla Feltrinelli con la giustificazione che erano già stati pubblicati quell’anno quattro libri di donne e che non volevano essere giudicati una casa editrice femminista. Come se fossimo capaci di scrivere unicamente romanzi rosa o libri per ragazzi».
Poi venne la rivoluzione sessuale che ha portato anche a un cambiamento del modo di concepire la bellezza femminile...
«Non esistevano certo le banalità estetiche di oggi, la smania di voler restare giovani a tutti i costi, l’ossessione per il corpo, ragazze che 17 anni si rifanno il seno, le mode, ma il sesso esibito così vistosamente alla fine non eccita più. Negli anni ’60 c'era più ipocrisia, mancava l'educazione sessuale. La pillola ha cambiato tutto ponendo fine all'ossessione di rimanere incinta, ma per anni si poteva acquistarla solo in Svizzera».
Com’era il mondo culturale di allora?
«La libreria Einaudi di via Manzoni era il punto di ritrovo culturale milanese: Vittorini, che per me ha rappresentato un fulcro d'attrazione, Bassani, Eco, Parise, Moravia, Arbasino, Feltrinelli, Fortini. Pensi che, pur essendo una sconosciuta, Pasolini e Moravia mi hanno ricevuto a casa loro con una gentilezza sorprendente ed hanno letto il mio romanzo Un amore fraterno, non ancora pubblicato, che sarebbe stato finalista allo Strega. Moravia mi rimproverò l'uso della parola “banchetti” per indicare i banchi dove si vendono i libri usati. “I banchetti sono quelli di nozze”, disse.

Si deve scrivere “bancarelle”. E poi il Piccolo Teatro... Ricordo una prima del Galileo di Brecht con un Tino Buazzelli strepitoso. Durava cinque ore. Un po' troppo... ma quella sera avevo indossato un reggiseno sbagliato che mi torturava...».

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