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Com’è lontano Marx da Pechino

Com’è lontano Marx da Pechino

Pechino - Mi sono reso conto, appena messo piede a Pechino, che tutto quello che avevo studiato e letto sulla Cina non aveva, con la realtà, rapporto alcuno. Questo divario non era dovuto alla immensità dell'aeroporto. Era prodotto dalla inattesa bellezza dei vasi di porcellana, dei fiori di giada dei bronzi datati a secoli avanti Cristo che esposti in vetrine scintillanti rompevano ogni 20 metri la fredda anonimità di un lungo percorso fra vetro e acciaio. La sorpresa continuava all'esterno non tanto a causa della foresta di grattacieli che fanno di Pechino una ingigantita Nuova York pulita e senza disordinata pubblicità luminosa, ma per lo sciame di ciclisti che procedeva sulle corsie parallele a quelle occupate dal traffico automobilistico senza che quasi nessuno pedalasse dal momento che cavalcavano biciclette elettriche.

Il mio ignorante stupore continuava poi a causa dello sdoppiamento di messaggi che mi giungevano da ogni parte, messaggi in lingua incomprensibile ma con significati chiari emessi da un mondo antico lanciato verso il futuro. Messaggi di sfrenata modernità di stile occidentale ma espressi attraverso ad una specie di filigrana di stile orientale: dal biglietto di visita, stampato in due alfabeti, porto con due mani e con un inchino che fa capire quanto scortese sarebbe intascarlo, alla scintillante funzionalissima stanza da bagno dove l'acqua che scende automaticamente dai rubinetti non è bevibile (tre bottigliette invitano a usare la loro acqua per lavarsi i denti).
Presenti a Pechino e ovviamente ignari della mia esistenza c'erano i 3000 delegati all'Assemblea del partito comunista. Riuniti e inavvicinabili nell'immensa aula del palazzo del popolo mi seguivano con esasperante ripetitività con le immagini dei pochi eletti autorizzati a parlare, o dei molti silenziosi rappresentanti militari ingessati nelle loro uniformi o nelle folcloristiche vesti nazionali dei «territori autonomi». Il tutto nella più totale indifferenza della gente con cui parlavo.

I membri dell'Assemblea sembravano infatti appartenere ad un altro mondo di pensiero e azione anche se discutevano su una legge che rappresentava una vera e propria rivoluzione per la Cina del 21° secolo: la legge che legittimava con molta prudenza la proprietà soprattutto delle terre agricole «in comune». Legge imposta non dall'evoluzione di un sistema marxista diventato «socialismo di mercato» ma dalle continue e ufficialmente quasi sempre ignorate proteste (con morti e feriti) dei contadini espropriati delle loro terre a favore di progetti di sviluppo industriale e con compensi iniqui.
Nessuno può immaginare le conseguenze di questa riforma a lungo osteggiata dall'ala radicale del partito ma sostenuta da una crescente classe di arricchiti (si parla di 70 milioni) che di coscienza borghese ne hanno poca e di individualismo pratico confuciano molta. Il cambiamento non avverrà comunque nella logica dei traguardi programmati dai piani quinquennali di ispirazione sovietica ma nello spirito e ritmo di una tradizione buddista per la quale il cambiamento avviene in cicli di cinque anni moltiplicati per dodici: un corso e ricorso immutabile di 60 anni che comporta anch'esso uno sdoppiamento. Quello del tempo calcolato per la vita famigliare sul calendario lunare e quello del tempo solare che regola i ritmi dei rapporti globali.

Mentre all'Assemblea del partito si discuteva - secondo quanto lasciato trapelare ai giornali e alla Tv - della necessità di «raffreddare» l'economia e di come meglio distribuire le ricchezze fra i gruppi in espansione dei sempre più ricchi e quelli dei sempre più poveri - il governo annunciava con fierezza che le esportazioni erano aumentate nel mese di febbraio del 13,3% in confronto al febbraio dell'anno precedente. Molto meno si diceva del problema dei pensionati che per la gioia dei turisti ballano o cantano a crocchi nei giardini pubblici (a Shanghai sono 3 milioni su un totale di 17 milioni). In una società che da 30 anni ha proibito alle coppie di avere più di un figlio e che continua ad espandersi per inerzia demografica, l'assenza di servizi medici e assistenziali diventa la preoccupazione costante per famiglie che hanno da sempre posto il culto degli antenati e il rispetto per gli anziani al centro di religioni prive dell'idea di un Creatore.

Il regime affronta questi problemi con un senso pratico che di logica marxista ha molto poco. Ciò che lo guida nelle scelte non è l'ideologia ma la memoria storica del destino di tutte le dinastie che hanno governato questo immenso Paese: il fatto che hanno perduto il potere a causa di rivolte contadine.

La dirigenza attuale del partito comunista è una nuova dinastia che non intende come le precedenti abbandonare il potere. Si difende dalle sfide interne ed esterne non con l'aiuto di una classe di burocrati letterati ma con quadri di meritocrazia. I quali possono scontrarsi come quelli di Shanghai con quelli di Pechino ma restano uniti nella necessità di affrontare i problemi dei cambiamenti imposti dalla globalizzazione con un senso di pratica - spesso cinica - elasticità ideologica. Non è qualcosa di nuovo e lo si comprende visitando il museo storico della nascita del partito comunista maoista.

Situato nel vecchio e restaurato quartiere francese di Shanghai, in una casetta dove si tenne la riunione fondatrice del partito, il museo dista qualche centinaio di metri dalla concessione inglese (lungo il fiume che offre la migliore impressionante panoramica dello sviluppo commerciale e urbanistico di questa città d'avanguardia). Qui sino a tempi relativamente recenti l'accesso ai «cinesi e ai cani» era vietato nei giardini pubblici. Eppure nulla nel museo della nascita della rivoluzione maoista fa pensare al suo tanto decantato anti imperialismo. Le concessioni straniere, infatti, pur essendo un affronto alla dignità imperiale cinese, non erano colonie europee come quelle in Africa o in India. Erano centri esplosivi di attività commerciali, industriali, di modernità e di multietnicità come dimostra la fotografia dei membri europei nel gruppo dei fondatori del partito. Mao voleva farne una struttura di potere autoritaria, marxista, che traeva la sua forza dalle masse contadine non da una classe operaia praticamente inesistente. Allora - come oggi - voleva un partito capace di «pensare grande». Il che significava 50 anni fa vincere il feudalesimo secolare e porre fine alle tre maledizioni storiche della Cina: le carestie, le inondazioni e le epidemie. Realizzazioni che restano gloria del maoismo nonostante i suoi errori e violenze che guarda all'Occidente con superiorità priva dei complessi vendicativi e vittimisti coloniali. La grande massa della popolazione continua a riconoscerne i meriti.

Per questo viene da sorridere nel leggere o sentire certe previsioni di «esperti» occidentali sulle conseguenze nefaste delle inevitabili tensioni interne della Cina provocate dal suo esplosivo sviluppo economico: il contrasto - anche politico - fra regioni costali in crescita esponenziale e il retroterra rimasto a livello agricolo pre industriale; la rivalità fra i neo signori provinciali e il potere centrale; fra studenti e intellettuali in voglia di democrazia e i burocrati «trinariciuti» del partito; fra la nuova volontà di potenza e di riconoscimento internazionale e i conati di indipendenza o di autonomia dei gruppi etnici dal Tibet al Sinkiang.

La vita politica in Cina, come tutto il resto - mi viene spiegato - segue la logica ciclica di corsi e ricorsi tradizionali non quella dell'ideologia marxista. Nel primo ciclo dell'epoca maoista la rivoluzione fu idealmente comunista ma storicamente confuciana in quanto si trattò di darle un significato rotatorio più che di rottura col passato e di un inizio ex novo. Nel secondo ciclo - quello della rivoluzione culturale che Mao cercò di imporre, il fallimento fu causato non da una incomprensibile liturgia propagandistica ma da un tentativo rivoluzionario alla francese in fase terminale terrorista di Robespierre. Oggi il partito chiede al Paese di continuare a «pensare grande» senza però indicargli come.

E dal momento che le grandi calamità collettive - epidemie, carestie e inondazioni - stanno diventando ricordi del passato, per i giovani - mi spiega la mia guida che ne ha meno di 30 - questo significa ad essere autorizzati a pensare soprattutto alla grandezza dell'automobile, dell'alloggio e del conto in banca.

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