Alla luce degli ultimi avvenimenti, viene il sospetto che nella lotta al terrorismo islamico abbiamo commesso dei grossi sbagli. Abbiamo concentrato i nostri sforzi in Afghanistan, da cui i big di Al Qaida sono scappati già da otto anni nel vicino Pakistan e dove i principali capi talebani assicurano (non sappiamo, peraltro, quanto in buona fede) di non rappresentare una minaccia per l'Occidente, mentre abbiamo permesso quasi senza reagire che l'organizzazione di Bin Laden mettesse le radici in nuovi santuari, lo Yemen, la Somalia, il Maghreb, da cui è di nuovo in grado di attaccare tutto il mondo. Impegniamo 160.000 soldati, a costi iperbolici e continue perdite umane, nelle montagne dell'Asia centrale a caccia di un nemico che è sì legato ad Al Qaida, ma combatte anche per fini nazionali, e tardiamo a prendere atto che ormai il pericolo di un nuovo 11 settembre, di una nuova Londra o una nuova Madrid viene da tutt'altra parte, spesso addirittura dall'interno delle nostre società. Come ha detto Roberto Maroni nell'intervista in cui ha riferito di «segnali preoccupanti anche in Italia», siamo ormai al «terrorismo in franchising», a cellule che si formano quasi spontaneamente sul territorio, attraverso le quali - vedi il caso Milano - immigrati in apparenza tranquilli e bene integrati decidono di trasformarsi in bombe umane.
Intanto, nonostante tutte le precauzioni prese, non sappiamo bene chi, tra quelli che entrano clandestinamente in Italia e quelli che vi vengono accolti sotto i vari programmi di protezione, sia un «terrorista potenziale», cioè uno che viene nel nostro Paese con cattive intenzioni. Già sei mesi fa (il 6 luglio, per la precisione) ho segnalato che la geografia di Al Qaida stava cambiando, perché molti combattenti arabi, ceceni e uzbechi al servizio dello sceicco del terrore stavano lasciando le zone tribali del Pakistan - per la prima volta attaccate dall'esercito di Islamabad - per trasferirsi in altri scacchieri da cui operare con maggiore sicurezza e impunità. Adesso cominciamo a vederne le conseguenze: l'attentato al volo Amsterdam-Detroit è stato ordito e organizzato nello Yemen; gli Shebab, in controllo di tutta la parte meridionale del Paese, stanno richiamando e indottrinando giovani somali emigrati in Occidente e ormai dotati di passaporto americano, inglese o italiano perché ci attacchino in casa nostra; Al Qaida nel Magreb, l'ex Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento (di cui Paesi della UE accolsero, ai tempi della guerra civile in Algeria, alcuni esponenti come rifugiati politici!), sta ricostituendo la sua rete di complicità in Europa in vista di estendere il suo raggio d'azione dall'Algeria e dalla Mauritania alla Francia e, possibilmente, a Italia e Spagna.
Questa evoluzione di Al Qaida, dove Bin Laden (ammesso che sia vivo) rimane il sovrano, ma i vari feudatari sono sempre più autonomi e potenti, ci impone di rivedere la nostra strategia. Finora Obama si è concentrato sulla «guerra di necessità» in Afghanistan, che va certamente vinta per evitare un rilancio anche propagandistico e psicologico della Jihad mondiale, ma non serve a eliminare l'organizzazione nel suo insieme; ha invece trascurato quella «guerra globale al terrorismo», che era la priorità di Bush. Ora sembra tornare sui suoi passi, tanto che lo smantellamento di Guantanamo è rinviato alle calende greche per evitare di rimandare ben 92 prigionieri proprio nello Yemen e l'amministrazione si appresta a una intensificazione della caccia ai terroristi mediante i droni e le forze speciali ovunque si trovino, senza tanti riguardi per la sovranità dei Paesi interessati. È un passo nella direzione giusta, ma va fatto in fretta, prima che altri attentati, riusciti o anche falliti, diffondano di nuovo il panico nel mondo occidentale.
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