Il commento Ma lasciateci almeno il diritto sacrosanto di brontolare

Eliminare il lamento come segreto per vivere felici: anche se si traveste da rivelazione, è un’idea antica come il mondo, ciclicamente ritinteggiata con il linguaggio dei tempi e opportunamente rimessa sul mercato. È talmente geniale che la canticchiava persino Mary Poppins, a beneficio dei ragazzini imbronciati: basta un poco di zucchero e la pillola va giù. E certo, che sarà mai: inutile drammatizzare, bisogna guardare il lato positivo delle cose, basta un poco di zucchero e la pillola va giù.
È da molto che stanno provando a convincerci. Vorrebbero farci credere che la vita sembra tutti i giorni una battaglia solo perché siamo noi stessi a renderla una battaglia. Se Mary Poppins appare effettivamente un po’ fragilina, come pensatrice, basta risalire nel tempo per incontrare il maestro di questa teoria, il filosofo tedesco Leibniz. La sua storica frase, «Viviamo nel migliore dei mondi possibili», diventa per secoli oggetto di feroci discussioni. Voltaire la usa come bersaglio preferito nel suo capolavoro eterno, il «Candido», facendola ripetere a Pangloss, l’istitutore ottuso e pedante dell’ingenuo protagonista. Casca il mondo, ma non fa nulla: niente avviene per caso, neppure le catastrofi come l’incendio di Lisbona arrivano per farci del male, anzi se sappiamo leggerle ci appaiono per quello che in realtà sono, situazioni positive ed edificanti. Allora come oggi: inutile piangerci addosso, basta evitare il lamento e la vita ci appare subito in modo diverso. Tutta rose e fiori, un lungo e interminabile sorso di nettare soave.
Chiaro che bisogna capirsi: non è il caso di sfoderare un’elegia al professionista del lamento, al malmostoso cronico come sublime modello umano. Con la crescita del benessere, con il primato del superfluo, cioè con la pandemia di noia esistenziale esplosa nell’ultimo mezzo secolo, la tendenza a ridire su tutto, sempre e comunque, fino a non apprezzare più nulla, è un fenomeno reale. Se piove perché piove, se fa caldo perché fa caldo. Questo è innegabile: senza che neppure ce ne siamo accorti, si è diffusa nel creato una nuova razza, petulante e noiosa, del tutto incapace ormai di assaporare qualunque cosa e qualunque momento.
Ma un conto è rinnegare questa perversione, un altro è idealizzare l’abolizione del lamento. Giù le mani, da questo diritto supremo e intangibile. Anche perché, a occhio e croce, è l’ultimo che ci resta. Se cassiamo pure questo, è finita. Ipotesi medie di una vita media. Un pendolare di Treviglio aspetta il treno per Milano, alle sette della mattina, sia novembre o sia gennaio, dentro una nebbia che surgela anche i pensieri, ma il treno tutti i giorni ritarda dei quarti d’ora, e quando arriva è stracarico come un carro bestiame: niente, possono pure prenderlo a sberle, ma il saggio pendolare non si lamenta. Se legge il libro magico da sei milioni di copie sa che anzi bisogna intonare cori di giubilo e stappare subito una magnum di champagne al bar della stazione. Sorbole, quant’è bella la vita con i suoi treni in ritardo, e magari con un bellissimo licenziamento per mancanza di puntualità sul lavoro. Diciamolo: quelli che si lamentano non hanno davvero capito una mazza.
E i capelli nella pizza? E il caffè a due euro in piazzetta? E l’ingorgo non segnalato in autostrada? E l’impiegato al di là dello sportello che ha appena litigato col collega per le ferie di Pasqua, signora per piacere non mi faccia perdere tempo che oggi non è giornata? E la banca che nega il credito nel momento del bisogno? Come no: è stupido lamentarsi. Dirò di più: Sabrina Ferilli si alza la mattina per proporre pure lei una candidatura alla guida del Pd e un iscritto non dovrebbe lamentarsi. Ma chi siamo noi, una popolazione di Tafazzi? Ci prendiamo tutti i giorni a bottigliate proprio lì e dovremmo pure riderci sopra?
Non so se è contenuta nel libro, perché non l’ho letto e continuo a preferire Tolstoj, ma di solito la risposta è questa: il lamento è la massima espressione del pessimismo disfattista, nella vita serve ottimismo. Ecco, proprio leggendo Tolstoj e Voltaire credo di poter dire questo: il diritto di lamentarci, meglio ancora, il diritto alla ribellione contro l’ingiustizia, è la forma più alta di ottimismo.

Non di quello idiota, che pretende di solcare la vita sospinto da un eterno sorriso ebete. No, intendo l’ottimismo che si dà da fare, che prova a cambiare qualcosa, per costruire davvero, prima o poi, possibilmente prima della fine del mondo, il migliore dei mondi possibili.

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