Una delle lamentele più ripetute e significative da parte di Fini riguarda, come è noto, la necessità di maggiore collegialità nelle decisioni, come egli e i suoi più fedeli parlamentari non si stancano di ribadire. Messa così la cosa, Fini ha certamente ragione. Nei partiti, tanto più se grandi espressioni interclassiste come è certamente il Pdl, è necessario riservare un largo spazio alla discussione interna e alla collegialità, soprattutto per le decisioni che riguardano questioni di notevole importanza, come per esempio quelle attinenti alle riforme istituzionali. E d'altra parte, la discussione e la collegialità sono l'essenza stessa della partecipazione democratica dentro e fuori i partiti.
Tuttavia, se le osservazioni di Fini possono essere ritenute in linea di principio fondate, il problema sorge su di un altro piano, riguardante invece la fonte da cui esse provengono, vale a dire Fini stesso. Non è un segreto per nessuno infatti che Fini sia stato e di fatto continui a essere il capo indiscusso del suo partito per oltre due decenni; e che abbia esercitato tale funzione di guida in modo del tutto esclusivo, al punto che il dissenso politico interno - di cui pure oggi egli invoca la piena legittimità - per esistere, è dovuto per forza di cose diventare esterno. Prova ne sia la sorte politica dei dissidenti di Alleanza nazionale negli ultimi anni.
Basti in proposito ricordare Storace, la Mussolini, la Santanchè, il mai dimenticato Enzo Fragalà e, non ultimo, Nello Musumeci - forse meno noto dei precedenti esponenti politici - ma in grado di guidare per due mandati consecutivi la Provincia di Catania, facendo il pieno di voti anche da parte della sinistra moderata, in virtù della sua capacità e serietà amministrativa. Ebbene, tutti costoro, in un modo o nell'altro, sono stati indotti a fuoriuscire dal partito e a fondarne uno proprio o semplicemente a smettere ogni incarico nella politica nazionale, rifugiandosi nel localismo municipale: insomma il dissenso, per farsi sentire, se n'è dovuto andare fuori dal partito o fuori dal proscenio nazionale.
Fa perciò specie che a invocare la collegialità sia proprio colui che non sembra aver nutrito, per tale collegialità, molta attenzione negli ultimi anni. Non solo. A volte la dominanza della segreteria politica di Fini sembrava estendersi fino al giornalismo di partito. Certo, è normale e perfino forse doveroso che un segretario politico detti al quotidiano di partito la linea da seguire: altrimenti quel quotidiano non sarebbe espressione di quel partito. E perciò non c'è davvero da meravigliarsi che il quotidiano di Alleanza nazionale per anni abbia rappresentato l'espressione editoriale e giornalistica del partito e del suo segretario.
Piuttosto, c'è da chiedersi se quel quotidiano abbia mai ospitato articoli, opinioni, prospettive divergenti in tutto, o anche soltanto in parte, dalla linea politica della segreteria di Fini. Sarebbe davvero uninteressante indagine, capace anche di offrire di Fini uninterpretazione nuova, quella che si preoccupasse di investigare se il quotidiano di partito di Alleanza nazionale abbia mai lasciato adeguato spazio alla «collegialità» o alla dialettica delle idee, oggi a ragione tanto da lui invocata.
In quel quotidiano, qual era la voce dei giornalisti e soprattutto dei collaboratori esterni? I liberi commentatori potevano in modo esauriente esprimere la loro libera opinione? Oppure c'era bisogno, allo scopo di dare il via libera alla pubblicazione di tali libere opinioni, di un lasciapassare graziosamente elargito dalla segreteria di partito? Si badi: se anche così fosse stato e continuasse a essere, non ci sarebbe scandalo alcuno.
La questione è un'altra: può in modo credibile predicare la necessità di dar spazio al dissenso e alla libera discussione chi - come Fini - non si è mai preoccupato di dar loro spazio all'interno del partito? Insomma, non può predicare la libertà e il dissenso se non chi libertà e dissenso abbia personalmente coltivato e difeso.
È davvero il caso di Fini?
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