Con la «Compagnia degli uomini» Ronconi critica il capitalismo

Com’era prevedibile l’imminente andata in scena del nuovo spettacolo del Piccolo di Milano firmato da Luca Ronconi ha richiamato, alla vigilia della «prima» prevista per l’11 gennaio, notevole curiosità e interesse da parte sia degli addetti ai lavori che degli ammiratori del grande regista, notoriamente poco propenso a riempire il suo carnet di autori contemporanei. Naturalmente ad eccezione di Edward Bond, autore di testi splendidi e contraddittorii come Saved e Quando si fa giorno che a suo tempo irritarono i benpensanti per il crudo realismo delle immagini e l’impietosa analisi della condizione umana. Copioni questi ultimi su cui Ronconi non si sofferma preferendo invece dilungarsi (lui che anni fa, a Torino, mise in scena in occasione delle Olimpiadi della Neve i memorabili Atti di guerra) proprio su questa Compagnia degli uomini del ’98 finora inedita sul mercato italiano (ma la traduzione sarà disponibile a giorni per i tipi della Libri Scheiwiller). Un testo che gli interessa in modo particolare, assicura, perché contrappone non sul piano del dissidio familiare a suo tempo esplorato dai greci nel parricidio involontario di Edipo ma sul piano generazionale lo scontro, con tanto di sacrificio finale, tra due tipi contrapposti di capitalismo. Esemplato nella sinistra macchinazione intrapresa dal gruppo dei giovani, solo in apparenza votato a conquistare nuovi spazi di profitto all’industria dell’abbigliamento, contro il capitalismo anziano di stampo ottocentesco. Concentrato sulla fabbricazione e l’incremento di armi d’offesa di cui i presunti eredi o figli naturali intendono avvalersi per acquisire al massiccio sviluppo industriale intere regioni del Terzo Mondo, una volta espropriati gli indigeni del loro habitat naturale. «Quello che mi interessa», puntualizza Ronconi dopo aver presentato la compagnia che, agli ordini di una guest star come Gianrico Tedeschi, annovera interpreti del calibro di Carlo Valli, Giovanni Crippa, Riccardo Bini e, tra i giovani, due promesse di indiscusse capacità come Marco Foschi e Paolo Pierobon, «è porre l’accento sulla sistematica distruzione della ragione, irrinunciabile postulato della società moderna. Che si muove, in Compagnia degli uomini, non tanto per sradicare le radici della convivenza civile ma l’idea stessa della famiglia.

Non più quella concepita da Thomas Mann, il più grande autore borghese di ieri, che ne indicava i fondamenti nella quaterna padre-madre-figli e servitù. La famiglia è diventata oggi uno spregiudicato gruppo di potere che non si riferisce più ad alcuno dei suoi componenti bensì al vuoto. Un vuoto che nello spettacolo si traduce nell’assenza totale della scena».

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