Il compagno travestito da seminarista

Era un ricco borghese, ma si diceva plebeo in omaggio al marxismo. Poiché era un mostro sacro dell’intellighenzia comunista, i militanti dei risvolti di copertina e delle enciclopedie si allinearono alla menzogna e gli attribuirono infime origini. Grazie a queste penne servili passò per il prototipo dei proletari-lavoratori, anche se i soli che frequentò furono i suoi domestici.
Sfogliando le schede biografiche del personaggio, è istruttivo osservare la metamorfosi che subisce col tempo la qualifica professionale di suo padre. Finché il Nostro fu in vita e per tutti gli anni ’60 del XX secolo, si legge che il genitore era impiegato in una cartiera bavarese. Oscuro e maltrattato, va da sé. Successivamente, la bugia comincia a venire a galla. Nei Dizionari degli anni ’70, l’uomo è già capo ufficio dell’azienda. In quelli degli anni ’80, diventa direttore commerciale. Nelle odierne biografie, crollato definitivamente l’apparato propagandistico comunista, il padre riassume le sue vere sembianze: amministratore delegato della maggiore industria cartaria di Augusta, bella città alla confluenza del Lech e del Wertach.
Il Nostro ebbe dunque un’infanzia agiata in seno a una famiglia di proprietari e professionisti già in vista nel XVI secolo. Il ragazzo, che aveva un soffio al cuore, fu il beniamino della mamma che gliele dava tutte vinte. Ciò non impedì al ventunenne, quando la donna morì nel 1920, di organizzare il giorno stesso una riunione in casa con amici chiassosi. Accadeva, scrisse più tardi il fratello incredulo, «mentre tutti noi eravamo ammutoliti dal dolore». Poi, non contento, lasciò ostentatamente la città prima del funerale e, chitarra a tracolla, si avviò per il vasto mondo.
Il Nostro aveva una bella voce e grande abilità nello scrivere canzoni lente e ripetitive, con parole forti come pugni nello stomaco. I lieder divennero popolari in Germania come quelli di Heine il secolo precedente. Presto, furono noti anche all’estero, essendo il paroliere eccellente promotore di sé stesso.
Curava la sua fama con pedanteria teutonica. Poiché il Paese era tutto a sinistra dopo il disastro della Grande guerra, il Nostro si schierò coi più e, anzi, ne prese la guida artistica. Si era dato un look che molti imitavano. Capelli alla Bruto, occhiali di metallo cerchiati, berretto di panno, giacchetta con cintura di cuoio e maniche di stoffa. Tutto rigorosamente in tinta grigia. «Un incrocio tra un seminarista e un camionista», osservò Carl Zuckmayer, scrittore suo coetaneo. Grigie erano anche le copertine e le pagine dei libriccini che pubblicava, simili a modesti testi scolastici, per sottolineare che erano destinati al popolo.
Iscritto al Pc, dovette fare fagotto all’arrivo dei nazisti. Girovagò tra Francia e Danimarca. Fece qualche capatina in Urss, dove era osannato. Ricambiava inneggiando ai processi staliniani, ma non si fermava a Mosca più di tanto, considerandolo, nell’intimo, poco prudente. Alla fine si trasferì negli Usa, preceduto da una sua commedia in cui Hitler impersonava un gangster di Chicago. In America, trascorse infelicemente gli anni del secondo conflitto mondiale. Non ci si adattò mai. Era troppo rigido e ripetitivo nei temi e Hollywood lo rifiutò come sceneggiatore. Ma giocò d’astuzia. Accumulati una serie di appunti, più o meno impubblicabili, riuscì a farseli acquistare dalla New York Public Library. Era un modo di mettere un piede permanente nella cultura yankee, di incuriosire il pubblico e incoraggiare tesi di laurea su di lui.
Il suo carattere volutamente sgradevole, lo mise in contrasto anche coi rifugiati tedeschi. Thomas Mann disse di lui: «Un galoppino di partito, sfortunatamente intelligentissimo. Un mostro». Il Nostro, di rimando: «Un clerico-fascista. Un minorato. Un rettile». Terminata la guerra, data la sua fama di filosovietico fu convocato dalla Commissione per le attività antiamericane. Per non finire in carcere come altri che avevano rifiutato di presentarsi, collaborò. Fece qualche ammissione e disse molte bugie. Fu prosciolto, ma lasciò gli States. Messo di mezzo l’oceano, dichiarò sbruffone: «Quando mi hanno accusato di volere rubare l’Empire State Building ho capito che era venuto il momento di partire».
Nell’Europa divisa tra Ovest e Est, annusò l’aria e decise scientificamente il da farsi. Prese la cittadinanza austriaca, poiché Vienna era neutrale. Andò a vivere nella Germania comunista che gli fece ponti d’oro, mettendogli a disposizione un teatro con 250 maestranze. Scelse un editore della Germania dell’Ovest per la pubblicazione delle sue opere e aprì un conto in Svizzera per incassarne i proventi in sonanti marchi occidentali. Fece baldoria con numerose attricette che, per il mestiere, gli capitavano a tiro, nonostante fosse stato sposato due volte e avesse avuto quattro figli che ignorò del tutto.

Quando il cuore malato cominciò a fare delle bizze serie, mise a tacere il suo patriottismo comunista e si fece trasferire da Berlino Est in una clinica di Berlino Ovest. Sperava di cavarsela con l’ennesima furbizia. Ma neanche l’Occidente fu in grado di fare il miracolo e morì cinquantottenne.
Chi era?

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