Roma - L’attacco alle nostre imprese viene dall’Oriente. Dalla Cina, in particolare. Più che di spionaggio industriale, si tratta di una strategia radicale che approfitta delle conseguenze della crisi economica: acquisire società italiane non per rilanciarle ma per carpirne il know how tecnologico e trasferirlo nel Paese del Sol Levante, prima di chiuderle.
L’allarme è arrivato all’inizio dell’anno dal vicepresidente della Commissione europea Antonio Tajani, ma ora questo «scenario di rischio» viene confermato dai rapporti dei nostri servizi segreti. Nella relazione sull’anno 2010, presentata la scorsa settimana dal governo al parlamento, l’intelligence lo segnala al primo tra le «sfide crescenti».
Si denunciano, per l’esattezza, tentativi di «depauperare il patrimonio tecnologico e di alterare le condizioni di mercato», specialmente nei settori delle telecomunicazioni e dell’elettronica. Queste «minacce alla sicurezza economica nazionale e al sistema Paese», per i nostri 007, si fanno molto insidiose per i pesanti strascichi della crisi economico-finanziaria, «che ha accresciuto la vulnerabilità del tessuto produttivo».
Gruppi stranieri, sempre più asiatici e cinesi in particolare, avrebbero in sostanza sferrato un attacco alle nostre imprese più appetibili, in un momento in cui sono appunto indebolite dalla crisi. E queste manovre di acquisizione nasconderebbero, dietro il fine dichiarato di un miglioramento produttivo, ben altro.
I colossi cinesi si muoverebbero non per fare sani investimenti, non per risanare, rilanciare o migliorare le nostre imprese, ma per «appropriarsi del know how tecnologico nazionale», per rubare le conoscenze accumulate, le abilità tecniche e trasferirle altrove. I servizi segreti sottolineano che, di fronte ad operazioni del genere, esiste una particolare «vulnerabilità» del nostro patrimonio. Insomma, siamo pressocchè indifesi. E dalle banche alle biotecnologie, dell’ energia ai giochi on line, tutto è molto interessante per questi investitori stranieri.
La relazione segnala tra gli aspetti emergenti, in particolare «il radicamento delle aziende gestite da imprenditori di origine asiatica, in costante progressione in molteplici settori prevalentemente capital intensive (cioè con disponibilità di grandi capitali, ndr.), anche con l’obiettivo di utilizzare il territorio nazionale come polo logistico per accedere al vasto mercato europeo».
Grandi capitali. Come nel caso della prima operazione che ha destato allarme in Europa. A gennaio, infatti, nella battaglia per l’acquisizione della società olandese Draka, tra il concorrente italiano Prysmian e quello francese Nexans è entrata a sorpresa e pesantemente la cinese Xinmao. Gli investitori asiatici hanno poi dato forfait, ma il mercato è entrato in fibrillazione e alla Commissione Ue ci si è incominciato a chiedere che cosa si stava muovendo. E si è cercato di vedere chiaro nei flussi di capitali in arrivo dai Paesi extraeuropei, Cina in testa.
A febbraio il primo a muoversi è stato Tajani. Il commissario Ue all’Industria, con il collega al Mercato interno Michel Barnier, ha scritto una lettera al presidente Josè Barroso. «Vorremmo attirare la sua attenzione - vi si legge- su un argomento spesso evocato dall’industria europea e cioè che alcuni investimenti stranieri in Europa non si propongono di risanare le nostre imprese o di migliorarne i risultati ma piuttosto di privarle del loro know how per trasferirlo all’estero». Tajani e Barnier chiedono un dibattito in Commissione, per armonizzare il sistema delle regole, magari creare un nuovo organismo centrale. E indicano l’esempio di Paesi come Usa, Canada, Australia, Giappone, Russia, la stessa Cina, che prevedono meccanismi di controllo ed autorizzazione degli investimenti stranieri per salvaguardare interessi nazionali strategici.
Negli stessi giorni sei ministri europei, dal nostro Paolo Romani ai colleghi di Francia, Germania, Spagna, Polonia, Portogallo firmavano una lettera aperta dal titolo significativo: «Europa aperta al mondo ma senza ingenuità».
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