(...) Sono sospettose e quando le avvicino, mi dicono che loro non sono vorrebbero pagare niente di più rispetto a quei soldi che per legge servono per avere i documenti. Poi, qualche minuto dopo, capiscono che forse vale la pena rischiare e provare a fare unofferta. La trattativa avviene così, alla luce del sole, sotto gli occhi dei militari, dei vigili, della polizia che presidia la zona. Ma in fondo cosa ne sanno loro di quello che stiamo facendo? Siamo due donne, come tante altre. Le dico che voglio almeno il doppio rispetto a quello che lei vuole a darmi e quindi almeno duemila euro. In nero. Dice che conosce altre ucraine che possono darmi senza problemi quella cifra in cambio del permesso. Poi mi dà appuntamento per il giorno successivo. Con Lilia invece le cose scivolano via molto più lisce. Vanno bene duemila, va bene che me li dia subito. Va bene, punto e basta. Non cè tempo da perdere e tira fuori un bigliettino per scrivermi il suo numero di telefono.
Il giro prosegue in piazza Oberdan. Qui nelle vie dietro Corso Buenos Aires cè una piccola casbah. Grappoli di arabi, musulmani, marocchini, africani che stanno lì a presidiare gli angoli delle strade come fossero di loro proprietà. Gli internet point sono i posti migliori. Entro in quello più vicino e ripeto la mia richiesta. Sto cercando degli stranieri da assumere, sono disposta a metterli in regola a patto che paghino il permesso di soggiorno. E profumatamente. Il gestore del locale si asciuga il sudore con il palmo della mano. «Daccordo. Passa domani mattina per le fotocopie dei documenti. Vanno bene tremila a testa». Dico di sì, questa volta non me la sento di trattare. «Scusa, ma quanti uomini ti servono?».
Il mercato ortofrutticolo di via Lombroso sembra un mondo parallelo. Alle otto e trenta del mattino ci sono soltanto capannelli di stranieri allingresso. Cingalesi, indiani, asiatici che si infilano velocissimi dentro i cancelli ed escono carichi di mazzi di fiori. Ahmir cammina a passo spedito verso lentrata insieme a un gruppo di connazionali. «Sì, sì ho capito. Quattromila a testa per il permesso di soggiorno. Noi paghiamo te e tu ci dai i documenti». Intesi, ci siamo. Ma guarda che me ne servono cinque come minimo. «Lasciami il tuo numero di telefono e ti faccio parlare con il capo, ti procura tutta la gente che vuoi». Mentre parliamo, si avvicinano altri immigrati, ci hanno sentito e vorrebbero anche loro mettersi in lista per le regolarizzazioni. Saranno cinque o sei, in un attimo tirano fuori il cellulare dalle tasche pronti a segnarsi qualsiasi numero gli dia. Non importa se è quello giusto, non importa se davvero mi chiamo Valentina, Francesca o Laura e che mestiere faccio. Non conta nemmeno quello che loro andranno a fare. Nessuno fa domande. Loro si fidano, sono costretti a fidarsi. Per disperazione e forse per rimanere aggrappati alla speranza che questa sia la volta buona e si può smettere di vivere nella paura.
Dicono che in via Bramante, nel cuore di Chinatown ci sia un locale dove è possibile conoscere un «venditore di teste». Un italiano in questo caso, che gestisce gli affari e si intasca una buona tangente sui soldi degli stranieri. «Sì, cè qualcuno qui che ci lucra. Ma è cattiva gente, gente che chiede un sacco di soldi. Pericolosa». Eppure quando chiedo di questo strano scambio nessuno si sorprende, come se vendere e acquistare uomini fosse la cosa più normale del mondo. Routine quasi, persino in un luogo aperto al pubblico. Il negozio di fronte è di un cinese, il vecchio fa avanti e indietro dalla strada. Come un boss che tiene sotto controllo il suo territorio. Non parla bene litaliano e preferisce affidarmi a suo cognato. Poche parole, chiare. Questa volta però ci provo: voglio ottomila euro a persona. «A ottomila forse non li trovo, ma a seimila sicuro. Dimmi quanti ne vuoi». Me ne bastano dieci, in fondo sono sessantamila euro che sommati a quelli della mattina prima fanno ottantamila che sommati a quelli del giorno prima fanno almeno centoventimila euro. Esentasse. Niente male.
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