«Il computer può diventare una droga»

La dipendenza dai videogiochi è grave quanto quella dall’alcol e dalla droga. E anche i meccanismi con cui si sviluppa sono molto simili. Parola di Mauro Grimoldi, presidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia.
Dottor Grimoldi, intende dire che giocare per venti ore al giorno a un videogioco è grave quanto fare uso di stupefacenti?
«La dinamica è la stessa: ogni tanto si vince e ogni tanto si perde. In questo modo si rafforza il senso del piacere. Ci si dissocia dalla realtà alla stessa maniera».
E cosa dice dell’uso di violenza? È una conseguenza?
«Sì, chi è dipendente aggredisce le persone che cercano di distoglierlo dalla sua realtà virtuale, che si intromettono e che cercano di farlo tornare con i piedi per terra».
Quali sono i sintomi per dire che un amante dei videogame è dipendente?
«La prima cosa è la perdita del sonno. Chi sta maturando una dipendenza non si rapporta più con gli altri, si isola e cerca una forma di piacere assai semplice, sempre più a buon mercato. Si rifugia in un mondo non reale in cui non è sottoposto a giudizi e in cui è più facile essere all’altezza».
In sostanza si identifica totalmente con un personaggio di fantasia?
«Sì, ma spesso non è la bellezza del videogioco a creare la dipendenza, quanto il meccanismo».
Di solito però capita agli adolescenti.
«Non è detto, può colpire anche gli uomini adulti che comunicano sempre più con chat, mail e social network, alterando la realtà. Certo, i giovani sono più a rischio. Basti pensare al fenomeno degli hikikomori in Giappone: giovani che non escono più dalle loro camerette e si relazionano con gli altri solo attraverso Internet».
In Lombardia quali sono i dati del fenomeno?
«Non ci sono ancora numeri specifici. La dipendenza sarà inserita per la prima volta nel prossimo manuale statistico degli studi mentali».


Si guarisce da una patologia del genere?
«Ci vuole un lavoro lungo, una terapia nient’affatto semplice. Viviamo in una società in cui gli elementi narcisistici sono in primo piano e nei soggetti più deboli si crea sempre più il desiderio di scivolare in una dimensione meno corporea. La comunicazione si smaterializza».

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