Andrea Carraro è uno dei rari scrittori italiani subito riconoscibili ad apertura di libro (ora è la volta de Il sorcio, Gaffi, pagg. 241, euro 12,50): è, questa, una caratteristica degli scrittori autentici, a differenza della folla di dilettanti indistinguibili che, per strana indulgenza degli editori, trovano ospitalità anche nei maggiori marchi editoriali italiani. Carraro è anche, forse, lo scrittore più aspro dellintero panorama letterario italiano: il suo stile, non lontano dallunderstatement moraviano grigio, a volte persino trasandato, e comunque privo di bellurie stilistiche, rivela la preoccupazione di farci penetrare nella psicologia dei suoi personaggi disperatamente o goffamente umani, capaci di sordi rancori e di slanci generosi, deboli, demotivati, ma anche aggressivi, appassionati ma capaci di arzigogolate vendette dovunque essi si trovino, nel luogo di lavoro, in famiglia, nei presunti svaghi di una tediosa routine nella quale appaiono amaramente invischiati.
È grande merito dellautore non cercare lhorror tanto di moda, né il sesso estremo di tanti noiosissimi romanzoni sadomaso «acchiappalettori» frustrati. Il sesso, in questo libro, cè nella forma elementare, quello del tormentato amore di coppia. Solo qualche volta si lascia andare, violando la sua stessa «misura», già molto forte e permissiva, e scade in qualche frase troppo triviale. Certo questo romanzo ha alcuni evidenti difetti: soprattutto una struttura rischiosa a causa dei continui e rapidi passaggi dalla prima alla terza persona narrante, e, qua e là, soluzioni linguistiche troppo corrive. Ma lintera vicenda - romanzo di formazione e insieme di autodistruzione di ogni istituto, famiglia compresa, polemica sociale, tentativi di palingenesi nella rincorsa a luoghi e tempi della memoria, contraddittorietà di tutti i sentimenti - costituisce una specie di formidabile summa, catalogo vivente e articolato di debolezze ma anche inattese oltranze umane.
Su una sponda opposta, Giuseppe Ferrandino, con le 1116 pagine del romanzo di cappa e spada, appunto intitolato Spada (Mondadori, euro 22) costituisce un vero problema in questo senso: comè noto, il delizioso romanzo I tre moschettieri di A. Dumas, è solo il primo di una trilogia: il secondo e il terzo sono Ventanni dopo e Il visconte di Bragelonne. Cera proprio bisogno di scrivere un nuovo «Ventanni dopo», dove DArtagnan è ormai diventato il comandante dei moschettieri del re (al posto del leggendario capitano De Tréville), Porthos è il solito onesto, bonario ma implacabile spadaccino, e Aramis è diventato un temibile cospiratore? Naturalmente il volume è denso di intricatissime vicende, che tuttavia suscitano limpressione di essere moltiplicate da unossessiva volontà di imprigionare il lettore in una immensa tela di ragno, più che artigliarlo con la forte espressività di un vero romanzo dazione.
Ad esempio, i duelli non sono molti, la spada infilza poco. E ciò non produce le emozioni che ci aspettavamo da un emulo del grande Dumas.
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