Condannati per l’omicidio di un «morto» ancora vivo

Accusati dai pentiti di aver ucciso il boss Lanteri, in tre prendono l’ergastolo Ma un anno dopo la loro presunta vittima viene processata e spedita in carcere

nostro inviato a Lentini
Se non ci fosse da rabbrividire (per le modalità dell’assassinio) verrebbe da ridere (per le follie emerse in dibattimento). In uno dei tanti processi siciliani con il solito morto ammazzato e gli immancabili pentiti, s’è raggiunto il top dell’obbrobrio giudiziario: tre persone sono state condannate all’ergastolo per l’omicidio di un pregiudicato che un’altra Corte d’assise d’appello, ritenendolo invece vivo, ha condannato al carcere a vita per tutt’altra vicenda criminale. Sentenza confermata dalla Cassazione. Non bastasse, l’intero iter processuale della morte (presunta) del boss di Lentini, Luigi Lanteri, è un distillato di assurdità e controsensi. Per raccontarli occorre tornare al gennaio del 1999, a quando cioè questo signor Lanteri viene attirato nelle campagne di Lentini e successivamente, pare, strangolato da persone che non gradivano la sua smania di farsi strada all’interno della cosca dei Nardo. Il cadavere, mai trovato, sarebbe stato caricato su una cariola, trasportato altrove e bruciato in un falò di immondizia e pneumatici. Così almeno raccontano, senza troppo convincere, i fratelli-pentiti rei confessi Vincenzo e Giuseppe Piazza, incredibili protagonisti del processo d’appello in corso a Catania, deputata a pronunciarsi sulla sentenza di primo grado che inchioda gli imputati Angelo Caruso, Paolo Sebastiano Furnò e Francesco Insolia.
Le dichiarazioni di Vincenzo Piazza, mai esaustive e spesso avventate, diventano comunque il motore dell’inchiesta. Per intuirlo basta leggere i primi verbali, rileggere le dichiarazioni in aula, dare una sbirciatina ai «risentiti» motivi del ricorso presentato dagli avvocati Managò, Alati, Calì e D’Amico. Confessioni definite «incredibili», quelle di Piazza, allorquando vanno ad indicare le modalità dell’omicidio: prima parla di ricorso ad una corda. Poi si corregge e dice che in cinque avrebbero strangolato Lanteri adoperando una catena lunga 50 centimetri: purtroppo per il pentito, in corso d’opera s’è scoperto che il «morto» aveva un collo taurino - 46 centimetri di circonferenza - il che rendeva praticamente impossibile lo strangolamento avendo due soli centimetri d’appiglio. Così Piazza ha allungato la catena fino a un metro, aggiungendo a sorpresa un dettaglio in più mai rivelato in precedenza: «Per ucciderlo gli ho infilato una lima nel naso». «Anzi no - si correggerà mesi dopo - gliel’ho conficcata in un occhio». Della lima utilizzata per scannare il boss, Piazza si ricorda - coincidenza - solo dopo che i carabinieri rinvengono l’attrezzo. Altra perla, la data dell’omicidio. Piazza si dice sicuro del 10 maggio 1999: «È avvenuto il lunedì dopo Sant’Alfio», patrono di Lentini. Quando gli si fa notare che Lanteri è in realtà scomparso cinque mesi prima, e cioè il 4 gennaio 1999, il collaboratore di giustizia dice la prima cosa che gli viene in mente: «Ehm... vabbè... avevo confuso le festività natalizie con la festa di Sant’Alfio». Tutto così. Sul luogo della consumazione del delitto entra in contraddizione col fratello, sul vestiario del morto viene smentito dalla vedova, sul rinvenimento di un mazzo di chiavi del defunto indica con precisione maniacale il luogo dov’è stato gettato ma viene contraddetto dai carabinieri che lo rintracciano altrove. Errori madornali, in sequenza. Ma la sentenza è ugualmente di ergastolo per gli imputati nonostante manchi la prova certa della morte del boss con la polizia del commissariato di Castorina che addirittura ipotizza «una fuga volontaria del Lanteri per rendersi latitante così da sottrarsi a un’ordinanza di custodia cautelare». Insomma, c’è chi lo dà per vivo, chi per morto. Per i giudici della corte di assise di Siracusa che il 16 marzo 2007 emettono sentenza di colpevolezza per Insolia, Caruso e Furlò, il boss Lanteri è morto nel gennaio 1999.

Per la corte d’assise di appello di Catania, Lanteri era invece vivo nel 2000 in quanto il boss è rientrato nella maxi-operazione «San Marco-Santa Panagia» del gennaio 2000 andata a sentenza il primo giugno 2005: qui il «morto» si è beccato un ergastolo.
gianmarco.chiocci@ilgiornale.it

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