Confesso, sono un mostro

Un uomo trascorre un’esistenza polverosa e tranquilla. Poi, una malattia crudele e l’arrivo di uno strano artista...

Non ho mai voluto spiccare. Non ho mai voluto essere diverso. Sono un codardo. Tutto mi spaventa. Ho vissuto tutta la mia vita nella quiete, in una polverosa tranquillità. Sono nebbia, no è troppo, sono un po’ di foschia. Sono un po’ di foschia. Niente di più. Adesso le mie condizioni atmosferiche sono visibili, sono appariscente come una tempesta.
Vivo in una casa isolata ai margini della città. Ho paura a uscire. Delle persone, anonime, mi lasciano vino inacidito sulla soglia di casa e spugne sporche. Lo confesso, sono un mostro. Sono un uomo tranquillo. Non lo pensereste, guardandomi ora. Lavoravo al municipio, scrivevo documenti in una stanza sul retro. Tutti mi lasciavano in pace. Le persone, quando si accorgevano di me, mi dimenticavano subito. Ora non più.
Non penso sia colpa mia. Eppure, in quello che sembrava un giorno normale di una vita normale, ho sentito una rigidità al collo. Al lavoro la gente cominciò a notarmi. In meno di una settimana, la parte anteriore del collo si era deformata. All’inizio la dimensione era quella di un sassolino, niente di cui preoccuparsi sul serio, se solo si fosse fermato lì, ma non lo fece, questo è il punto. Diventò delle dimensioni di un cranio di neonato. Cominciai a indossare delle sciarpe ogni volta che uscivo. C’è una vecchia che lavora da me, fin da prima che la protuberanza comparisse. Mi porta il cibo e lo cucina. Adesso, meno infastidito in questo domicilio codardo, ho cominciato a morire dalla voglia di avere notizie sulla città. La vecchia me le porta. Ma se la prende sempre con calma, devo cavarle fuori anche le più piccole indiscrezioni. Le chiedo di descrivere tutto e ora, dopo molti mesi, è molto migliorata. Questa era la nostra routine, fino a quando arrivò l’artista.
I Francescani sulla collina, seppi, avevano commissionato a un pittore di rappresentare la vita di Cristo. Ma non un normale dipinto: bensì la Vita. È arrivato da noi un grand’uomo, dice la vecchia. Un genio venuto a dipingere e a scolpire miracoli! Ogni volta che viene, parla solo dell’artista. Passano mesi, e l’artista continua a creare i suoi miracoli. Mi dicono che è andato in giro per le strade a disegnare le cose comuni e anche le cose terribili. Quando muore un bambino lui vuole disegnarlo. Vuole studiare la gente mentre ride e mentre piange. Va a funerali e matrimoni. Non c’è nulla che non lo affascini. E così, era forse inevitabile, venne a sapere di me e del mio gozzo. Vuole vederti, dice la vecchia, può venire?
«Mai» dico. «Cosa le salta in mente?».
«Lunedì prossimo» dice lei, «verrà lunedì prossimo».
«Glielo proibisco».
«Lunedì» dice lei, «non so a che ora, è un uomo molto impegnato».
Ho dormito pochissimo fino al lunedì. Arrivò quando era già buio. Pensai se ne fosse dimenticato quando sentii bussare alla porta. Sbircio dalle imposte, non è solo, ha un’assistente, un accolito che veste come lui, per imitazione. Mi stringo nella sciarpa. Lui batte forte alla porta.
«Mi lasci entrare» dice, «sono curioso di vederla, lei non è curioso di vedere me?».
Aprii il chiavistello, ma solo per educazione. Vedo bene il suo viso e sono sgomento. Mi aspettavo Cristo stesso, ma di fronte a me c’è una faccia ordinaria tranne, la vedo, una chiara fiducia in se stesso.
«Per favore mi lasci in pace, signore» dico.
L’uomo e il suo assistente entrano.
«Ci sono posti nel mondo» dice l’artista, «dove sono succedono cose peggiori e cose migliori, e di sicuro artisti più grandi di me. Ma qui nella vostra città c’è sufficiente bellezza, bruttezza, orgoglio, avidità, lussuria. Tutti i sette peccati capitali sono qui. E poi, naturalmente» dice, «ci sei tu. Raccontami la tua storia».
Non mi piace per niente. Ma non sarò sgarbato. «Mi chiamo Piero Pantigini, signore» racconto, così forse se ne andrà. «Nel mio quarantasettesimo anno d’età, con poco preavviso, il mio collo ha cominciato a gonfiarsi».
«Per favore» dice «posso disegnarla?».
Tremo. «Ma è mio!».
«Lo voglio» dice «per la Vita».
«Per favore, signore, no».
«Cerchi di capire» dice l’artista. «Lei si aggiungerebbe in modo meraviglioso al mio lavoro. Non sia spaventato, io devo far vedere tutto». L’artista sussurra qualcosa al suo assistente, che si avvicina a me. Si rivolge al suo maestro:
«Sei pronto?».
L’artista con la matita e la carta in grembo annuisce, l’assistente si gira verso di me e mi pesta violentemente un piede. Guaisco di dolore.
I mesi passano. La vecchia dice che la Vita è finita, l’artista se n’è andato. Poco dopo hanno cominciato a lasciare il vino avariato e le spugne sulla mia soglia. È una cosa straordinaria, dice la vecchia, la Vita.
«Ci sono io, là?».
«Sì» dice lei.
«È una rappresentazione somigliante?».
«Pare di sì».
«Non la vedrò mai».
«Va bene, resta qui».
Ma non posso smettere di pensarci. Non avrò pace fino a quando non l’avrò visto. E così cammino per le strade della città, con cappuccio e sciarpe, è tardi, nessuno mi ferma, salgo sempre più in alto, sulla collina, il collo mi brucia. Alla fine arrivo. Ci sono delle cappelle tutto intorno, e in ognuna ci sono dei capitoli della Vita. Ci cammino in mezzo. E piango. Sto, lo so, sto camminando attraverso la Vita di Cristo. Sento il Suo dolore - come Egli soffre per noi. Queste figure, seppure silenziose, sembrano fare rumore. Questi suoi bambini di terracotta, queste bambole adulte sembrano vive. Come può un uomo di aspetto così ordinario aver creato questo? Mi cerco dappertutto, e a lungo non mi trovo. Studiando le figure mi appare chiaro che ha preso la Vita dalle nostre strade, riconosco la gente della nostra città. Usciva e li disegnava tutti, trasportandoli nel Nuovo Testamento.
Sono nella scena più grande, una piccola parte, non mi notereste a primo acchito, ma insinuatevi per bene, mi troverete là. Oh, le lacrime, bruciano, mi cadono dal viso, ho il collo in fiamme. Sono là, nella Crocifissione di Cristo! Sono menzionato nella Bibbia! Quando Gesù chiese dell’acqua, fui io a intingere la spugna nell’aceto e a reggerla sopra a un palo, avvicinandola al suo viso, con un orribile ghigno sulla bocca. Ma quel ghigno non è un vero ghigno, è il modo in cui la mia faccia reagisce quando mi pestano un piede. Questo sono io, adesso. Per sempre. Che orrore.
«Non ero io!» urlo. «Non l’ho fatto! L'artista ha mentito!».
Arrivano i monaci. «La città intera è qui» piango. «Ma perché devo essere stato messo in quel ruolo? Io sono un uomo tranquillo!».
«Il tuo collo impartirà un insegnamento» mi dice un monaco quando mi sono calmato, un tizio anziano che puzza di muffa. «Il tuo collo spiega alle persone qual è l’aspetto di un comportamento così malvagio e le farà pentire della loro condotta. Il tuo collo è un collo così eloquente, la gente imparerà dal tuo collo, anche dopo la tua morte. Sei stato generoso, hai fatto una cosa buona».
Me ne vado, i monaci mi benedicono, faccio il lungo viaggio di ritorno giù in città, mentre vado tolgo la sciarpa dal collo. Che bello sentire il vento sulla mia protuberanza. Sono splendido, penso. Sono appariscente. Sono reso eterno dall’arte. Insegno. Sono utile. Ruggisco. Sono una tempesta. Sono libero. Mi sento così felice. Benedico questo gozzo che mi ha reso così coraggioso. Sono già quasi arrivato a casa mia. Vedo dei ragazzi lasciare una lurida bottiglia di vino sul gradino. «Buuu!» gli urlo. Scappano urlando.

L’ho fatto! Sono magnifico! Urlo rabbiosamente. Il mondo è grande e Dio è buono e così vario. E per un brevissimo momento penso di riuscire a capire tutti i meccanismi del mondo, e che il mio gozzo ne sia in qualche modo la chiave.

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