Vederlo camminare così, biascicare parole, umiliarsi nel procedere a tentoni nelle corsie dell’ospedale Cardarelli, fa rabbia. Rabbia vera. Perché lo sbirro che ancor oggi vanta più benemerenze antimafia di qualsiasi altro poliziotto, almeno ora meriterebbe ben altro trattamento. Almeno da questo Stato che Bruno Contrada ha servito lealmente e che in assenza di prove, l’ha condannato basandosi sulle parole di quegli stessi pentiti che Contrada ha braccato, perseguito, arrestato. Ecco perché il faccia a faccia nella corsia del «reparto Palermo» tra l’ex 007 del Sisde e il suo battagliero avvocato, Giuseppe Lipera, si colora di toni forti e tinte fosche.
Allora dottor Contrada, perché questa mossa a sorpresa? Perché ha deciso di non ricoverarsi?
«Se in questa drammatica situazione non vi fosse da piangere, mi verrebbe anche da ridere. Tutto ciò che sta accadendo intorno a questa storia comincia ad avere risvolti surreali, patetici, incredibili. In parole povere: in questa nuova struttura sanitaria, con la scusa dei controlli medici, mi hanno sepolto vivo. Qui, non altrove, rischio di morire».
Prego?
«A differenza dell’ospedale militare di Santa Maria Capua Vetere dove sono stato trasferito alla luce del verdetto della Cassazione, qui la cella è ininterrottamente chiusa, come si dice in gergo, è serrata “H-24”. Mattina, sera, notte inclusa. Non ho diritto nemmeno a un’ora d’aria, non posso leggere i giornali, fare una passeggiata, giocare a carte. Prima, almeno, per buona parte della detenzione, la cella rimaneva aperta e avevo modo di socializzare con i detenuti, a cominciare da quella splendida persona che è il collega Ignazio D’Antone, altra vittima delle conclamate calunnie di delinquenti mafiosi convertitisi per interesse. Di fatto chi sta trattando la mia situazione sta equiparando la mia posizione a quella di un capomafia in regime di 41bis. Contrada come Riina o Provenzano. Carcere durissimo per chi, come me – stando ai medici – ha serissimi problemi di salute. Niente male come trattamento umanitario, no? Ma c’è dell’altro».
Dica, dottor Contrada, dica pure.
«Come tutti sanno, gli appartenenti alle forze di polizia, per ovvii motivi, non possono coabitare nel medesimo reparto con detenuti comuni, criminali incalliti, mafiosi. Per me si è fatta un’eccezione: io convivo con costoro. Ma soprattutto per il sottoscritto non si è tenuto conto del fatto che avendo avuto un enfisema polmonare e un’ischemia, essendomi state diagnosticate malattie gravi con problemi respiratori, la scelta di ficcarmi in una cella stretta e angusta non può essere definita delle più intelligenti. Qui i problemi si ingigantiscono, compresi quelli circolatori che mi hanno quasi paralizzato gli arti inferiori. Ma c’è una cosa (dice Contrada rivolgendosi all’avvocato Lipera, ndr) che mi lascia senza parole: nell’ultimo provvedimento il giudice, ragionando forse sul mio pedigree criminale, ha chiesto ai carabinieri di non mollarmi mai di vista e di piantonarmi giorno e notte, dimenticandosi però che il reparto era già presidiato dalla polizia penitenziaria!».
Cosa chiede, dottore?
«Voglio una sistemazione umana, nient’altro. Che tenga conto del mio grado di generale della polizia di Stato e del mio grave stato di salute. A Kappler fu concesso di restare all’ospedale militare del Celio, per me, 76enne acciaccato e semiparalizzato, esistono problemi più grandi. Quando anni fa finii in galera riaprirono a Palermo un carcere tutto per me (sì, ero il solo detenuto). E quando poi si trattò di decidere se mettermi fuori, su mandato del Tribunale, una commissione medica stilò una perizia allucinante nella quale si diceva che non solo non c’era incompatibilità tra le mie condizioni psicofisiche e il carcere ma che (testuale) qualora fossi stato rimesso in libertà “avrei subito uno choc di ordine psicologico notevole perché la mia psiche si era abituata alla carcerazione”. Quindi era sconsigliabile un mio ritorno a casa. Ecco, mi sembra di essere tornato a quegli anni...».
Ci scusi Contrada, ma rispetto alla grazia lei come si pone. La chiede o non la chiede?
«Non la chiedo e mai la chiederò al capo dello Stato. Se non erro è stato il presidente Giorgio Napolitano a parlare della possibilità di questa cosa, e lo ringrazio. Come ringrazio il ministro Mastella e tutti coloro, e sono tantissimi, che stanno finalmente prendendo a cuore il mio caso interessandosi ad un processo che come dice mia moglie, grida vendetta. Non voglio grazie ma un “grazie” per tutto quello che ho fatto per questo Stato. Rivoglio l’onore che mi è stato tolto».
Chiede una revisione del processo?
«Sì, la chiedo perché occorre fare definitivamente luce su una delle più vergognose vicende giudiziarie di questo secolo. Supplico il Signore di darmi la forza per seguirla da vicino questa revisione, di aiutare i miei splendidi avvocati a smascherare un’operazione chirurgica compiuta, nel tempo, da loschi personaggi con la fattiva collaborazione di delinquenti mafiosi che non sono mai stati perseguiti, e dico mai, quando hanno mentito spudoratamente. Vorrei tranquillizzare tutti, a cominciare da mia moglie e mia sorella (per finire ai miei detrattori implacabili) che non mi lascio andare, non mollo. La testa c’è e ci sarà sempre. È il fisico che mi sta lasciando».
Rassicura anche i familiari delle vittime di mafia che hanno criticato la richiesta di grazia?
«Rispetto le opinioni di tutti, anche di chi crede che Contrada sia stato colluso con Cosa Nostra. Dico solo che per parlare bisogna sapere, non basta dire c’è una sentenza, bisogna rispettarla. Non è così. Leggetele queste sentenze, studiateli bene gli atti del processo, guardate quante incessanti e reiterate bugie hanno detto i pentiti che a tavolino si sono vendicati di me, aggiustando le dichiarazioni ogni qualvolta queste venivano smentite dai riscontri. Il processo Contrada, e ve lo dirà chiunque l’ha seguito da vicino, è tutto così. Tutto. Purtroppo ci sono, e ci saranno sempre, sciacalli e iene».
Antonio Di Pietro sostiene che la sua è una scorciatoia per sfuggire a una condanna per associazione mafiosa.
«Non mi faccia commentare. Di Antonio ricordo un pranzo nella caserma dei carabinieri di Roma, presente il colonnello Vitagliano, quando scese per recapitare un’informazione di garanzia a Bettino Craxi. Era su di giri, con me fu molto affettuoso. Quel pranzo (con un uomo della mafia) forse oggi gli andrebbe di traverso».
Favorevole o contrario a una commissione d’inchiesta sui pentiti?
«Favorevolissimo. È assolutamente necessaria. Non per Contrada ma per ristabilire la verità su tantissimi fatti di mafia. Ma non verrà mai fatta, hanno il terrore di scoperchiare la pentola».
Da dove cominciare per riaprire il caso Contrada?
«La prima cosa da fare è la lettura contestuale dell’ordinanza d’arresto del Gip del 23 dicembre 1992 e la richiesta a firma di quattro pubblici ministeri fatta appena due giorni prima: sono una la fotocopia dell’altra. Secondo voi, in meno di due giorni, il Gip ha esercitato un vaglio serio e approfondito delle accuse?».
Che cosa la disturba di più, oggi?
«Che possa apparire come un uomo vecchio, decrepito e piagnone. Sono malato, è vero, ma non voglio elemosinare nulla né pietire commozione. Chiedo solo il rispetto dei miei diritti. Mi chiamo Bruno Contrada, non sono Totò Riina».
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