La corsa senza traguardo di Mike Gravel «Mister zero per cento»

L’ex senatore dell’Alaska, 72 anni, non si schioda dal fondo classifica

Due stelle. Pulizie una volta a settimana. Elliot Jacobson s’infila nella doccia senza leggere il cartello: «L’acqua calda scorre fino alle 8.30. Poi dalle 8 alle 9 di sera». Nevica, meno tre a Des Moines. Ha sette minuti ancora. Non importa come, ma dove: Jacobson c’è, in questo albergo che sa di muffa e di bacon stantio. Dalla finestra si vede l’angolo della strada. È il Marriott, quello: lusso, caffè, sauna. Caldo. Tv via cavo. Elliot lo chiama: «Sono il capo dello staff di Mike Gravel. Lui è lì da voi ed è in corsa per la Casa Bianca». Risponde, eccolo. È pronto, preciso, pettinato. Ha pure la spilletta sul bavero: Mike for president. Ci crede giusto lui, ci crede Jacobson che è pagato per farlo. Gravel corre: senza meta, senza risultati, senza speranza. Corre e non va da nessuna parte. È fermo, perché lui è mister zero per cento. Guarda l’ultimo sondaggio, scende, giù, giù, giù: Clinton, Obama, Edwards, Dodd, Richardson, Biden, Kucinich. Lui c’è, ma non compare, il computer lo ha escluso senza pietà. Irrilevante, insignificante, superfluo. Gli altri hanno un numero, lui no. Non s’è mai mosso da lì, dal fondo, dal vuoto di uno zero che è la percentuale di un viaggio senza senso. L’America non lo vede, sa che esiste ma non che faccia abbia. Ha provato in Alaska, una volta. Gli hanno dato l’uno per cento: tanto, troppo. Ma quello è il suo Stato, è la sua casa politica, da lì negli anni Settanta e Ottanta l’hanno mandato due volte al Senato. Non vale, allora. E poi mischiato con il resto d’America scompare lo stesso, torna indietro al punto di partenza, ricomincia da capo. Zero.
Non ci si muove da qui. Jacobson fa quello che gli ha ordinato il capo. «Portami un bagel. Tu hai fatto colazione? Mi raccomando per te non prendere niente, che non abbiamo soldi. Per parcheggiare trova un posto sulla strada. Ricordati». Elliot esce. Al freddo entra nel primo Starbucks: lui è il Sancho Panza di un Don Chisciotte con la faccia da Zio Sam. Bianchi i capelli e le sopracciglia. Gli manca il cappello, solo quello. Il dito puntato, invece c’è. Gravel vuole arrivare in fondo alle primarie anche se è sconfitto prima di cominciare. Il mulino a vento ha la faccia di Hillary Clinton. Lei ha in tasca cento milioni di dollari, almeno. Mike in dodici mesi ne ha raccolti 306mila. Ha letto i giornali: questa è la prima campagna da un miliardo di dollari. Poteva restarsene a guardarla in tv, a selezionare da un telecomando il suo candidato preferito. Democratico lui: allora lady Clinton, oppure Obama, o Edwards. No, maledizione. A 72 anni, s’è messo in macchina con quel poveraccio di Jacobson che è l’unico membro del suo staff e lo aiuta in questa campagna fuori dal tempo e fuori dal mondo. Poi andrà in New Hampshire, in Michigan, in South Carolina. Inutile e felice. Fino alla fine, fino alla convention, fino a quando mezza America non avrà scritto definitivamente il nome del democratico candidato alla Casa Bianca. Ha già perso, ma non si ritira. «Nessuno di questi è meglio di me». Dice che se non fosse per i soldi, il presidente sarebbe lui. Certo. È convinto che la gente dovrebbe scegliere un uomo vero, «mica quei fantocci di plastica che sono avanti nei sondaggi». Parla a quei quattro che possono ascoltarlo, perché i numeri imbarazzanti di Gravel non gli hanno permesso neanche di entrare nei cinque dibattiti televisivi fatti finora. Così indifferente che non l’hanno neppure invitato. Concede interviste, è l’unico a rispondere senza problemi e senza sosta. Solo che al massimo l’ha cercato la Kwwl di Waterloo. È il paradigma della sua storia, questo: un perdente che parla alla tv di una cittadina che significa fallimento.
Che poi è stato un po’ Napoleone, lui. Senatore partendo dal nulla. Era un ex povero che s’era laureato alla grande alla Columbia: cominciò a fare affari con gli immobili e si trasferì in Alaska nel 1956. Democratico da sempre, fissato con la politica. Due mandati al Senato, i soldi, la guerra del Vietnam vissuta da nemico e paladino dei pacifisti, una stagione di successi trascinati fino al 1972, quando George McGovern lo infilò nella lista dei potenziali vicepresidenti. Non fu scelto e finì la sua parabola. Ex imprenditore: l’Alaska era costruita per quanto possibile e non c’era più modo di far soldi coi palazzi. Ex politico: sconfitto al tentativo di essere rieletto al Senato. Ex marito: la moglie l’ha lasciato e ha vinto la battaglia legale. Lei s’è presa la sua pensione da senatore e ha lasciato lui senza soldi. Gravel è tornato a Washington, ha messo su un ufficio in periferia. Candidato. «Corro per la presidenza. Se ci provano gli altri, allora ci sono anch’io». Ha fatto i colloqui per il suo staff: s’è fermato a uno perché i dollari erano pochi. Ha fatto finta di scegliere, l’ha chiamato: «Amico, sei con me in questa corsa».

Il suo uomo ha avuto un solo benefit: l’auto. La usa per accompagnare mister zero per cento in un viaggio senza traguardo. Va ovunque per non arrivare da nessuna parte. E parcheggia sulla strada: i garage costano troppo.

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