Politica

Ma alla Corte non bastano 11 sedute per nominare il magistrato vacante

Romano Vaccarella si è dimesso il 17 maggio 2007: da allora le sessioni di voto finiscono in nulla

C’erano una volta gli scioperi della fame di Marco Pannella e dei radicali a stomaci vuoti unificati per chiedere il sacrosanto rispetto della Costituzione e il ripristino del quorum della Corte Costituzionale. C’era una volta la bellissima e nobile battaglia per portare Filippo Mancuso alla Corte Costituzionale, purtroppo sfumata anche ma non solo per il peccato originale del durissimo scontro con Oscar Luigi Scalfaro. C’era un problema, quello dei quindici giudici della Corte, che era diventato all’improvviso uno dei principali problemi italiani.
Quel problema c’è ancora, tale e quale, dal giorno delle dimissioni del giudice costituzionale Romano Vaccarella, eletto in quota azzurra, per denunciare il fatto che la Consulta non è così indipendente come dovrebbe. Ma nessuno se ne accorge, anzi. E il tutto avviene nel momento in cui la Corte è chiamata alla decisione più importante e in qualche modo drammatica della sua storia recente, quella sui referendum elettorali, che potrebbe cambiare l’andamento della politica dei prossimi mesi e dei prossimi anni.
Eppure, la situazione della vacanza di un giudice e della mancanza del quorum di quindici rappresentanti della Consulta non è certo una novità. Anzi, si protrae dal 17 maggio 2007. Anzi, è da undici sedute comuni di Camera dei deputati e Senato della Repubblica che non si riesce a tirare fuori il nome di un giudice costituzionale, senza peraltro che nessuno dica nulla.
Per capirci, semplificando, le sedute comuni dovrebbero essere una specie di rito sacro del Parlamento, quanto di più serio e importante ci sia. E, invece, è dal 17 maggio dello scorso anno che si riconvocano in continuazione 630 deputati e 322 senatori - con costi tutt’altro che indifferenti, ma purtroppo è solo un particolare che rende il tutto ancor più amaro - che l’ordine del giorno è tristemente identico a se stesso: «Votazione per l’elezione di un giudice della Corte costituzionale».
Per la cronaca, finora sono usciti solo tre nomi dalle urne, ma nessuno con la forza per essere eletto: Alfredo Biondi, senatore e galantuomo azzurro, sempre in pole position che è arrivato a un massimo di 84 voti il 17 ottobre; Gaetano Pecorella, deputato azzurro, che ha un record personale di 15 voti nella seduta del 31 maggio e Francesco D’Onofrio, presidente dei senatori Udc, apparso in un unico scrutinio: il 20 giugno con tredici fans.
È tutto molto triste. Ma c’è di peggio: per cinque volte su undici i segretari della Camera non hanno nemmeno aperto le urne con le schede perché è mancato addirittura il numero legale minimo indispensabile per iniziare a contare. E, peggio ancora, il numero legale è venuto meno in cinque delle ultime sei sedute, con il minimo storico di partecipanti al voto registrato nella seduta del 24 ottobre, con solo dieci senatori su 322 nell’aula di Montecitorio. Record (negativo, ça va sans dire) della storia del Parlamento. Ancor più grave, visto che viene dopo appelli del presidente della Repubblica Napolitano a reintegrare il quorum della Corte, e soprattutto visto che riguarda una cosa che dovrebbe essere sacra, cioè il rispetto della Costituzione.
Da allora, un po’ per la sessione di bilancio, un po’ per una questione di dignità, la seduta congiunta non è più stata convocata. E la Corte costituzionale deciderà sui referendum con solo quattordici giudici, orfana del quindicesimo che se ne è andato accusando le pressioni politiche.

Non si segnala, al proposito, nessun digiuno.

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