Così affondò l’incrociatore dell’atomica

Pochi giorni dopo aver trasportato la bomba di Hiroshima, la nave fu silurata da un sommergibile giapponese

Sono le 23.35 del 29 luglio 1945. L’atmosfera a bordo del sommergibile giapponese «I-58» è tesa. Per il capitano di corvetta Mochitsura Hashimoto è finalmente arrivata l’occasione che attendeva da tempo: dopo tre anni a bordo di sommergibili adibiti alla difesa costiera, nel dicembre 1944 Hashimoto ha assunto il comando di una grande unità della “classe I” dell’ultimo tipo. La guerra cominciata gloriosamente sta volgendo al peggio, i bombardieri americani tempestano ormai quotidianamente le città nipponiche e uscire dal porto di Kure è già un’impresa eroica, ma il 16 luglio 1945 il sommergibile «I-58» prende il largo per la sua ultima missione, volgendo la prua verso le rotte nemiche tra le isole Marianne e le Filippine.
Il comandante Hashimoto ruota il periscopio, il bersaglio si avvicina rapidamente. Quella che inizialmente era soltanto una macchia nera sta prendendo forma: è una grande nave da battaglia. Ma come è possibile che sia così isolata e senza scorta? «Accostare a dritta». La nave nemica è a millecinquecento metri. «Attenzione. Fuori!». Sei siluri, lanciati a ventaglio, stanno galoppando verso il bersaglio. Hashimoto ha gli occhi incollati al periscopio. «Colpito, colpito!», grida ogni volta che un siluro coglie il segno. Il comandante ordina di scendere in profondità e di ricaricare i tubi di lancio. Quando l’«I-58» torna a quota periscopio, il bersaglio si è già inabissato.
Il 7 agosto i radiotelegrafisti intercettano una notizia stampa in cui si dice che una bomba atomica ha annientato Hiroshima. La bomba su Nagasaki viene sganciata il 9 agosto quando l’«I-58» è ancora a caccia del nemico. Il 17 agosto il sommergibile rientra alla base di Hirao e Hashimoto ancora non sa d’aver colato a picco l’incrociatore «Indianapolis», nave ammiraglia della 5ª Flotta Usa.
Un passo indietro. Alle tre del mattino del 16 luglio 1945, il capitano di vascello Charles Butler McVay III, comandante dell’«Indianapolis», convoca in quadrato gli ufficiali informandoli che la nave sarebbe partita all’alzabandiera verso la zona d’operazioni. «Non posso spiegarvi qual è la nostra missione, ma ogni ora che risparmieremo accorcerà di altrettanto la guerra». L’«Indianapolis» è ormeggiato nella Baia di San Francisco. «Entro un’ora un carico segretissimo sarà portato a bordo e noi dovremo rapidamente condurlo a destinazione», annuncia McVay. Il giorno prima il comandante ha incontrato l’ammiraglio Purnell e il capitano di vascello William Parsons (vicedirettore del laboratorio armamenti di Los Alamos), dai quali ha ricevuto l’ordine di portare il delicato carico sull’isola di Tinian e di sorvegliarlo come se ne dipendesse la vita della nave. Naturalmente a McVay non viene rivelato il suo contenuto, ma i comandi della Marina lo conoscono bene: hanno deciso loro, alcuni mesi prima, che sarebbe stato impiegato un incrociatore per trasportare il cuore di «Little Boy» (la massa critica di uranio 235 della bomba atomica) fino alla zona di operazioni.
Alle otto del mattino l’incrociatore mette la prua verso il mare aperto. In quello stesso giorno, da Kure, salpa anche il sommergibile nipponico. All’alba del 19 luglio l’«Indianapolis» raggiunge Pearl Harbor, dove sbarca il personale di passaggio. Riprende subito il mare e dopo una settimana di navigazione arriva a Tinian. L’isola è stata completamente trasformata. Gli americani hanno costruito sei gigantesche piste d’atterraggio per i superbombardieri B-29. L’incrociatore comincia subito le operazioni di scarico sotto la supervisione di William Parsons. Sarà lui, infatti, che il 6 agosto volerà con l’«Enola Gay» e che armerà l’ordigno durante il volo del B-29 da Tinian a Hiroshima.
Poi McVay riceve l’ordine di raggiungere subito Guam per poi proseguire verso Leyte, sulla costa orientale delle Filippine, per un periodo d’addestramento. E la mattina del 27 luglio l’«Indianapolis» entra nel porto di Apra, sull’isola Guam, nelle Marianne. E qui hanno inizio le complicazioni. Non ci sono unità di scorta disponibili. «Non è necessaria la scorta», è la risposta del comando delle isole Marianne. La rotta viene considerata sicura. Alle 9.10 di sabato 28 luglio, l’«Indianapolis» lascia il porto di Apra diretto a Leyte. La navigazione procede senza intoppi fino alla sera del 29 luglio. La visibilità è scarsa. «Dopo il tramonto può smettere di zigzagare», ordina McVay all’ufficiale di guardia. Il comando della flotta ha infatti disposto che tutte le unità debbano «zigzagare di notte o di giorno quando la visibilità è buona». Zigzagare è considerata da molti comandanti una pratica opinabile. Verso mezzanotte improvvisamente si sente uno scoppio tremendo a prua, accompagnato da fiammate e da una gigantesca colonna d’acqua. La nave ha un brivido. Subito dopo una seconda esplosione, più vicina al ponte di comando e più violenta, scuote lo scafo. Il comandante ordina di lanciare il segnale di soccorso. L’«Indianapolis» vibra tutto e comincia ad affondare di prora. «Siamo gravemente danneggiati», incalza il comandante in seconda rivolto a McVay, «dovremmo abbandonare la nave». Ma è un ordine drammatico, la nave è senza scorta, la terra più vicina è a trecento miglia e il mare è infestato di pescecani. McVay si avvia verso la cabina radio per accertarsi che il messaggio di soccorso sia partito. Ma la nave si è inclinata paurosamente. C’è appena il tempo per abbandonarla. Alle 0.14 di lunedì 30 luglio 1945 cola a picco l’ultima grande nave da guerra del secondo conflitto mondiale.
A bordo dell’incrociatore c’erano 82 ufficiali e 1.114 uomini d’equipaggio. Più di trecento vengono inghiottiti assieme alla nave. Dopo quattro giorni i superstiti sono avvistati: dei 1.196 uomini dell’«Indianapolis» ne sono sopravvissuti solo 316. Tra i superstiti c’è anche il comandante McVay. L’ammiraglio Nimitz, comandante della Flotta Usa, appena saputo della tragedia ordina una commissione d’inchiesta per appurare perché l’allarme non è scattato. I responsabili del porto di Leyte affermano che non è compito loro dare l’allarme se l’unità non giunge a destinazione all’ora prevista.
Il 15 agosto 1945 la guerra termina, i giornali affiancano la notizia della fine del conflitto a quella dell’«Indianapolis». Il 27 novembre, la Marina annuncia che il comandante McVay sarà deferito alla corte marziale, i capi d’accusa sono negligenza (non ha dato disposizione di zigzagare) e colpevole inefficienza (intempestivi gli ordini per abbandonare la nave). Il processo tiene le prime pagine dei giornali, soprattutto quando l’ufficiale giapponese Hashimoto viene chiamato a Washington per testimoniare. Mercoledì 19 dicembre McVay è dichiarato colpevole di negligenza. La corte gli infligge la «perdita di cento posti nel grado di capitano di vascello». Una carriera finita dopo 26 anni di servizio e tre decorazioni. La stampa insorge e accusa i giudici di aver condannato senza prove e di aver sorvolato il fatto che la maggior parte delle vittime è stata causata dai ritardi nei soccorsi. L’inchiesta della Marina non si ferma. Dopo alcune indagini interne, gli esperti affermano che la responsabilità è del comando in capo del Pacifico o del capo di stato maggiore a Washington: non hanno mai impartito direttive per impedire certi disastri. Il 15 febbraio ’46 la Marina convoca una conferenza stampa, in cui si annuncia che è stata condonata la pena inflitta a McVay e che sono state inviate quattro lettere di rimprovero ad altrettanti alti ufficiali di servizio a terra nelle Filippine.

Ma i quattro ufficiali il 9 dicembre ottengono una revisione del procedimento che porterà al ritiro delle lettere.
Charles Butler McVay si suicidò nel novembre 1968. Il 12 ottobre 2000, dopo 55 anni, Camera e Senato Usa scagionarono completamente il comandante.

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