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Così Ahmadinejad conduce il gioco

Sgombriamo subito il campo da un equivoco: dal punto di vista giudiziario il caso della giornalista iraniano-americana Roxana Saberi era, sin dall'inizio, inconsistente. L'hanno arrestata per aver acquistato una bottiglia di vino, che a Teheran è un reato; poi hanno cambiato il capo d'imputazione sostenendo che lavorava come giornalista senza accreditamento. Infine le hanno contestato l'accusa più grave: quella di essere una spia al servizio degli Usa. E l'hanno condannata. Ma ieri la Corte d'appello ha deciso di rilasciarla. Il tutto in circa cento giorni, a partire da fine gennaio, che guarda caso coincidono con l'inizio dell'era Obama alla Casa Bianca. La vicenda di Roxana è servita al presidente iraniano Ahmadinejahd per prendere le misure al nuovo governo americano. Un pretesto o, se preferite, uno stress-test.

Riepiloghiamo. Barack Obama, in netta contrapposizione con George Bush, ha deciso di fare la pace con il mondo. Mano tesa all'islam, a Cuba, a Chavez, ai cinesi, persino alla Corea del Nord. E anche all'Iran. All'inizio il suo sembra più che altro un gesto di buona volontà, ma bastano pochi giorni per trasformarlo in un'offerta seria. E concreta; perché il capo della Casa Bianca si dice pronto a trattare senza porre condizioni. Rinuncia anche a quella che sembrava irrinunciabile: ovvero la sospensione dei programmi nucleari in coincidenza con l'inizio delle trattative.

La svolta è clamorosa. E non è l'unica: gli Usa invitano l'Iran alla conferenza sull'Afghanistan aperta agli alleati e ai Paesi confinanti per elaborare una strategia comune contro i talebani. Ahmadinejahd manda i suoi emissari, ma non cambia atteggiamento. Più Obama gli tende la mano, più risponde con apparente disprezzo. Ed è in questo ambito che decide di strumentalizzare il caso della Saberi. Condannare per spionaggio una cittadina americana significa provocare una crisi diplomatica; eppure Washington tiene il tono della polemica basso. Non solo. Quando gli israeliani fanno filtrare indiscrezioni su un possibile raid contro le installazioni nucleari, Washington risponde pubblicamente e a voce alta. Con un altolà. Il messaggio è chiaro: noi vogliamo la pace al punto da tenere a freno Gerusalemme, voi iraniani cosa intendete fare?

La risposta è giunta ieri ed è ancora interlocutoria. Non segna l'inizio di una nuova era, bensì un primo, prudentissimo segnale di disponibilità; condito da una condizione implicita: devono essere loro, e non gli Usa, a condurre le danze. O perlomeno: se dialogo sarà, dovrà essere paritetico. E globale.

Già, perché a convincere Teheran non sono soltanto le rassicurazioni su Israele, ma il timore per quanto sta avvenendo in Pakistan. Gli iraniani sono fondamentalisti sciiti, i talebani fondamentalisti sunniti. E si odiano tra loro. L'avanzata verso Islamabad rende plausibile uno scenario inverosimile fino a poco tempo fa: quello dell'espansionismo talebano nella regione; che spaventa l'Iran. Improvvisamente l'America appare un po' meno satanica agli ayatollah, anche perché in gioco c'è anche il controllo dell'arsenale nucleare pakistano. Che cosa accadrebbe se cadesse in mano ai talebani? E in presenza di un nemico comune è più facile scordare le inimicizie del passato.
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