Così Eduardo scopre il teorema matematico che distingue il bene dal male

Scritta prima in napoletano poi in italiano, rimaneggiata più volte per meglio farla aderire alle qualità espressive dei singoli interpreti, Io, l’erede di Eduardo De Filippo è un’opera che ben esemplifica quell’organicità mutevole, persino «fisiologica», cui la drammaturgia va giocoforza sottoposta. Lo sa bene Andrée Ruth Shammah, regista accorta e sensibile che nel suo nuovo allestimento non si fa scrupolo di «aprire» la scrittura originaria a contaminazioni e spostamenti strutturali, pensati sia per conferire ulteriore modernità al testo sia per orchestrare in modo armonico ma mosso» un cast ricco di talenti, capitanato dall’ottimo Geppy Gleijeses. È lui - qui quanto mai distaccato, sobrio e ambiguo - a vestire i panni di Ludovico Ribera, misterioso «uomo di mare» che piomba nelle quiete domestica dei Selciano per recriminare un’eredità del tutto paradossale. Figlio di quel Prospero da poco defunto che per trentasette anni era stato «ospitato» dall’agiata famiglia borghese, egli pretende infatti lo stesso trattamento. La sua richiesta innesca ovviamente una situazione di forte conflittualità, dove la dialettica tra i personaggi (citiamo almeno la zia Dorotea tratteggiata da un chiaroscurale Leopoldo Mastelloni en travesti; il grigio avvocatuccio Amedeo di Umberto Bellissimo; l’arguta servetta della brava Margherita Di Rauso e la volubile Adele di Marianella Bargilli) sfiora i confini dell’assurdo, svelando retroscena inquietanti. Tanto più che il tema centrale del testo - l’impossibilità di distinguere il bene dal male e l’oppressione che, sotto diverse forme, gli uomini esercitano sui loro simili - assume i caratteri di una pochade tragica.
In definitiva, il dialogo tessuto da Eduardo sembra sorreggere un lucido teorema matematico: ogni benefattore tende a trarre vantaggio dalla propria generosità così come ogni beneficato, complice il fastidioso sentimento di riconoscenza che si porta dietro e che «eredita», tende a sfruttare il proprio benefattore. E la regia che ne ricava la Ruth Shammah, pur se forse con qualche lungaggine nella prima parte e qualche eccessiva declinazione melò nell’ultima, valorizza a pieno l’assunto di base, puntellandolo di note acide tutte contemporanee.

Tali da rimandare, per esempio, a quei lavori pinteriani in cui l’esterno e il passato (non è forse un legame con il passato l’eredità pretesa da Ludovico?) incombono minacciosi sull’oggi.
In scena all’Eliseo fino al 25 marzo. Info: 06/4882114.

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