Così Facebook scatena l’ormone dell’amore

Uno studio americano ha dimostrato come una breve navigazione online provoca nel nostro cervello scariche di ossitocina, la stessa sostanza che si attiva dopo un bacio appassionato. Il motivo? Lo spazio della realtà virtuale ci fa sentire meno soli

Così Facebook scatena l’ormone dell’amore

È l’ormone del bacio, del parto, della telepatia… e, a quanto pare, dei social network. Il suo nome per la neuroscienza, è «ossitocina». È chiamato «ormone dell’amore», sostanza naturale che, come la dopamina, aumenta nel nostro organismo in situazioni eccezionali: per esempio quando ci scambiamo delle effusioni, e l’autostima e il buon umore irrorano il nostro stato psicofisico. È anche l’ormone - l’ossitocina - che viene somministrato per indurre le contrazioni del parto, laddove sia necessario. E studi neuroscientifici recenti hanno scoperto che questa misteriosa particella presiederebbe a piccoli fenomeni di «telepatia», ovvero a intuizioni sorprendenti sul pensiero altrui, in quanto è l’ormone che meglio lavora sulle nostre funzioni cognitive, sull’apertura e la curiosità verso il prossimo.
La vera novità sull’ossitocina, però, riguarda i social network: o meglio, cosa succede, e come essa cresce nel nostro organismo, durante le nostre sortite su piattaforme virtuali come Facebook e Twitter. Uno studio della Claremont University, Stati Uniti, diretto dal Professor Paul J. Zack, ha messo in luce come questo ormone aumenti nel sangue dopo la fruizione dei network più popolari: analisi di laboratorio hanno dimostrato che il livello di ossitocina negli utenti di Facebook cresce addirittura del 13% dopo un breve viaggetto online. La stessa percentuale che si verifica - pare - dopo un lungo e appassionato bacio d’amore. Il che proverebbe che le interazioni su media come Facebook e Twitter accarezzano il senso di sé e ci fanno sentire confermati, coccolati, come se fossimo bocca a bocca col nostro essere umano preferito.
Possibile? Quali saranno mai i segreti di un semplice social network per innalzare nel nostro sangue (e nel nostro cuore) dei valori così importanti?
Le piattaforme virtuali sono spazi singolari. Il solo linguaggio che li caratterizza sembra - e ribadiamo, sembra - abbattere i capisaldi della solitudine. La parola d’ordine su Facebook? «Condividi». Che è un altro modo per dire «rendi noto», che è un altro modo per dire «lasciati guardare». Un microcosmo, la nostra «bacheca», inserito nel perimetro illusorio delle «impostazioni sulla privacy» (cioè un altro modo per dire «discrezione personale: decidi tu quanto e da chi lasciarti guardare»), e che invita con un semplice click ad apprezzare, disprezzare con commenti più o meno argomentati, qualunque cosa ci attraversi la mente. La musica che ascoltiamo. Le nostre immagini: una galleria di foto sulla gita fuori porta più recente, o dell’ultimo sorriso che abbiamo dedicato a qualcuno, «condiviso», evidentemente, ma non abbastanza. Un sorriso da cui spesso abbiamo rimosso (photoshop permettendo) le piccole ombre che ci appesantivano l’espressione, la palpebra appena calante, l’incisivo non perfettamente smagliante, e soprattutto quelle zampe di gallina che sullo schermo ci pungono come spilli nell’occhio. Sì, perché sullo schermo è tutto più grande, più reale. O così ci piace pensare.
Cosa dire poi degli «status» sulle nostre piattaforme virtuali? «Status» è davvero la parola più ingombrante di questa lunga e variegata gamma. Su Facebook, lo «status» corrisponde a una manciata di righe che abbiamo a disposizione per esprimere i nostri grilli, le nostre sensazioni, una recensione delicata o sferzante di ciò che stiamo guardando in tv: o, certamente, un piccolo dardo infuocato e pubblico verso l’utente che ci ha fatto inalberare. «Status» quale riflesso - così vuole la parola - di «ciò che siamo», che si imprime nero su bianco in questa impalpabile folla di internauti. Di persone cui non piace pensarsi sole.
Ecco cosa innalza del 13%, dice la Claremont University, il nostro livello di fiducia in noi stessi. La voglia di esprimerci: frequentemente in terza persona, come se avessimo il potere magico di astrarci da noi stessi per qualche istante.

Fare di noi i protagonisti di una saga disimpegnata, di un reality nel quale, però, siamo sempre liberi di giocare un po’ a nascondino sguinzagliando quella sorta di «avatar»: alter ego virtuale e scremato, che flirta meglio di quanto non sappiamo fare noi. Che accresce in noi l’ormone dell’amore, ci raccontano oggi. L’ormone della telepatia. L’ormone, chissà, delle belle illusioni.

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