Così il governo ha mentito sull’Afghanistan

Laura Cesaretti

da Roma

Situazione «combat»: dallo scorso maggio le regole di ingaggio dei partecipanti alla missione Isaf in Afghanistan non sono più quelle del «peacekeeping».
A rivelarlo, proprio mentre a Montecitorio il centrosinistra sta faticosamente cercando di tenere insieme la propria maggioranza sulla conferma della missione, minimizzando le perdite pacifiste, è il portavoce della missione Nato, attualmente sotto comando britannico. «Le regole di ingaggio sono cambiate il 4 maggio scorso, in vista dell’allargamento della missione nel sud dell’Afghanistan. E sono cambiate per tutti i militari che partecipano», fa sapere da Kabul il portavoce dell’Alleanza. Dunque, anche i militari italiani di stanza a Kabul ed Herat sono sottoposti alle regole «combat». Anche se il 30 giugno scorso, presentando il decreto sulle missioni, il titolare della Difesa Arturo Parisi aveva assicurato che per gli italiani non sarebbero cambiate, e che la missione sarebbe proseguita «nel solco della continuità per quanto riguarda gli impegni passati: per le regole di ingaggio, la collocazione territoriale e la consistenza complessiva della missione».
Dallo Stato maggiore della Difesa confermano invece che le regole sono mutate da maggio per tutta la missione Isaf, ma che valgono solo nelle zone di tensione: «Sì, sono state implementate - dice alla Reuters un portavoce -. Chi andrà al sud avrà la possibilità, qualora attaccato, di rispondere al fuoco in maniera più pesante, o di fare irruzione in un’abitazione dal cui interno abbiano sentito partire colpi d’arma da fuoco». La Difesa precisa però che quelle regole vengono usate solo dove necessarie, ossia nel Sud infestato dalla guerriglia talebana: non riguardano quindi, allo stato, il contingente italiano di stanza a Kabul. «E noi non invieremo soldati al Sud», garantisce il sottosegretario alla Difesa Forcieri, ds. Il problema, però, è cosa accadrà se il comando Nato chiederà alle truppe italiane di spostarsi. In quel caso, spiega Elettra Deiana di Rifondazione, «non abbiamo nessuna garanzia» che il governo italiano sia in grado di impedirlo. Deiana è l’esponente della maggioranza bertinottiana più in prima linea sulla vicenda Afghanistan: esperta di questioni di difesa e membro della omonima commissione, si batte da settimane per ottenere quelle «garanzie» che rendano più accettabile alla sinistra il decreto e per convincere i dissidenti del suo partito a digerirlo. Ma è realista: «Quando ha detto che le regole non cambiavano, Parisi non ha mentito: ha cercato solo di fare una dichiarazione più rassicurante possibile per la coalizione. L’impegno del governo a mantenere le truppe lontane dal Sud e dalle regole combat è fuori discussione, ma è un impegno solo politico». Il decreto, invece, «è ambiguo: non c’è scritto da nessuna parte che l’Italia resta a Kabul, si evince unicamente dalla mancanza di finanziamenti per bombardieri o reparti speciali». Deiana aveva chiesto un esplicito «congelamento» della missione italiana, che garantisse la sua permanenza nelle attuali zone di operazione, ma è la prima ad ammettere che le decisioni finali spettano al comando Nato: «Il problema fondamentale è proprio questo: la Nato decide autonomamente, ovviamente consultando i governi. Ma sarebbe necessario che esecutivo e Parlamento italiani potessero discutere se aderire o no alle sue scelte». Problema irrisolto.

Tanto che l’ex ministro della Difesa Antonio Martino lo dice esplicitamente: «Il centrosinistra spera di riuscire a far passare inosservato il fatto che dovremo inviare uomini dove la Nato ci chiederà». La Verde Luana Zanella conferma: «È vero, le scelte operative sono affidate all’Alleanza. E Parlamento e governo italiani non hanno molte possibilità di entrare nel merito».

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