Così hanno ammazzato lo stile "british"

Un romanzo racconta gli anni del Sessantotto a Londra: minigonne contro cappellini con la veletta L’ascesa di un’intellighenzia arrivista e la Pop revolution uccisero la vecchia Inghilterra. E non solo

Così hanno ammazzato lo stile "british"

In Gran Bretagna, nota lo scrittore senza nome che fa da filo conduttore del nuovo romanzo di Julian Fellowes Un passato imperfetto (Neri Pozza, pagg. 462, euro 18), «persiste un atteggiamento snobistico nei confronti dei nuovi ricchi. E non è la destra tradizionalista, bensì, paradossalmente, l’intellighenzia di sinistra a esibire la più netta disapprovazione verso chi “si è fatto da sé”. Proprio non capisco come ciò possa convivere con il concetto di eguaglianza». È che nel tempo quell’intellighenzia si è trasformata in aristocrazia intellettuale che oggi sbava per quello che ieri additava al pubblico ludibrio: case confortevoli, buon gusto, cibi raffinati, vacanze appartate e al riparo delle masse. Come si permette il popolo di sudare lì dove lei si accinge languida a riflettere?

Figlio di un diplomatico, studente a Cambridge, il nostro anonimo eroe ha fatto a tempo ad avere vent’anni alla fine dei Sessanta, quando la trasgressione poteva ancora far rima con la tradizione, le minigonne con i balli delle debuttanti e la servitù faceva parte dell’arredamento. «Prima della guerra la presenza dei domestici non aveva alcun potere inibitorio sui commensali: segreti politici, pettegolezzi di famiglia, veniva tutto a galla davanti ai camerieri e di certo la rievocazione delle chiacchiere padronali contribuiva a vivacizzare le loro serate al pub... Ma noi abbiamo perduto la semplice sfacciataggine di quella generazione. Per chiunque sia nato dopo gli anni Quaranta i muri hanno orecchi».

Un passato imperfetto è un romanzo interessante perché sotto quella che è una storia d’amore e di rimorso -una paternità ignorata e ricercata un quarantennio dopo- nasconde un’analisi di costume: il racconto della fine di un’epoca e di ciò che ne ha preso il posto. Chi la narra appartiene in fondo all’ultima generazione per la quale essere giovani era un dato anagrafico e non una professione: «Le persone non avevano il terrore d’invecchiare. Non si era ancora affermata la bizzarra cultura contemporanea, con i presentatori televisivi attempati che fingono di condividere i gusti del loro pubblico di adolescenti per carpirne la fiducia». È stata la «Tirannia liberale», nel quarantennio successivo, a falsificare le carte, dando a quel mondo un unico volto, quello della Pop Revolution: «Un manipolo di suonatori di chitarra fatti d’erba e con addosso imbarazzanti cappelli piumati o boleri di cuoio bordati con pelli di pecora»... Come Giano, invece, la realtà dei Sessanta aveva due facce: «Le ragazze non si lasciavano baciare al primo appuntamento, i ragazzi immancabilmente in cravatta, le madri che non uscivano di casa senza guanti e cappello, i padri che si avviavano verso la City con la bombetta in testa, tutto ciò ne faceva parte non meno del lato libertino costantemente rievocato dai documentari televisivi». Ma, si sa, la storia la scrivono i vincitori.

Oggi che siamo e/o ci sentiamo tutti più liberi, ci rimpinziamo di divieti. Ancora alla fine degli anni Sessanta, la domanda «Chi beve di voi due stasera?» avrebbe lasciato interdetta la coppia in arrivo a una cena, perché la risposta sarebbe stata invariabilmente: «Tutti e due!». L’idea di «imbucarsi» a una festa era considerata una bizzarria per la quale era necessario soltanto il sangue freddo atto a trasgredire una regola accettata da ambo le parti («Decido io chi invitare» / «Non vado dove non sono invitato»). Oggi, «l’ansia di sicurezza delle attuali generazioni, per non parlare della sua prosopopea, pretende agenti di sorveglianza, elenchi dettagliati per qualunque occasione più chic di una svendita dei grandi magazzini». Ma va anche detto che lo stra-cafonal che ha imposto il suo stile avendo mischiato i generi, può difendersi dalla contaminazione di chi come lui non ha uno status, ma nemmeno i soldi che ne fanno le veci, solo attraverso un’unicità blindata: body guard, e privé, «I don’t fly commercial» e vip card, eventi esclusivi...

È anche lo scotto che si paga per essere passati dalla celebrità alla popolarità. Allora, nei Sessanta, intendo, si ironizzava sulla «fama per la fama» e certo esistevano le persone famose e le masse che ne erano affascinate. Ma la vera novità dei nostri tempi è «il culto della non-celebrità, l’esaltazione mediatica di uomini e donne assolutamente ordinari... Quello della “celebrità sconosciuta” è un ossimoro che appartiene alla modernità». Siamo circondati da naufraghi dell’Isola dei famosi, contadini strappati alla Fattoria, superstiti del Grande fratello, Amici di tutti e quindi di nessuno, letterine e letteronze, veline, meteorine e meteoriti, gay veri e presunti, travestiti in carriera e zoccole che si sono ribattezzate escort...

C’è stata una curiosa eterogenesi dei fini nella rivoluzione dei Sessanta. Viene celebrata come l’alba di una nuova era in cui «il denaro non avrebbe avuto alcun valore, nazioni, guerre e religioni sarebbero svanite, ogni differenza fra le persone, le distinzioni di rango o di classe, si sarebbero dileguate nell’etere, e l’amore avrebbe regnato sovrano». E invece, e sorvolando sull’aspetto politico, il denaro si è rivelato l’unico elemento discriminante, quello che di fatto ha rimodellato la struttura sociale gerarchizzandola nel segno del benessere e indurendola sotto il profilo dei rapporti umani. Ieri il tuo censo modesto era bilanciato da un ruolo, una funzione, oggi che «arricchirsi è glorioso» e essere poveri una vergogna, la corsa al benessere è più competitiva, avida e feroce nel suo svolgimento.
È anche questo a provocare un perenne stato di tensione, l’idea che il prossimo sia il tuo nemico, l’efficienza come criterio distintivo, una specie di darwinismo socio-economico che seleziona il debole, il meno dotato, derubricandolo a inutile e/o superfluo e di conseguenza eliminandolo... È anche questo che spinge a barattare la libertà con la sicurezza. Un tempo «la legge non mirava a organizzare le nostre vite fin nei dettagli, come avviene oggi. L’intrusione continua dello Stato nelle vite private ci ha reso tutti più infelici».

La «tolleranza zero», che non si accontenta di reprimere, ma vuole imporci uno stile di vita virtuoso, è l’altra faccia della «ricerca della felicità» spacciata come un diritto. Un tempo l’abbrutimento alcolico «lo si associava alla Russia di Stalin, sintomo di un popolo oppresso dalla dittatura»... Si «beveva», naturalmente, anche nei mitici Sessanta, ma rimaneva un fatto riprovevole e di cui, passata la sbronza, scusarsi e vergognarsi. Oggi «è il vero scopo di ogni festa».

Avendo distrutto le diversità ci accontentiamo dei surrogati. Basta andare in un ristorante alla moda per rendersene conto. Si parte dal presupposto che «solo i poveracci ordinano quello che c’è sul menu così com’è» e quindi è la sagra delle eccezioni. «L’esercizio del potere assoluto nel mini-ambito di un ristorante» è la riaffermazione del proprio status, che però come tale non esiste, è quel «culto della non celebrità» prima ricordato, ed è continuamente minacciato da altre «celebrità sconosciute» come la tua. Così, è soprattutto «la spia di una rivalsa, il desiderio frustrato di cambiare ben altro nella propria esistenza».

Nel Passato imperfetto raccontato da Fellowes, c’erano tante cose che non andavano e del resto il tramonto di ogni élite

avviene quando dalla supremazia si passa al privilegio per poi finire nella sterile vanità. Nel nostro imperfetto presente, le nuove élites hanno accorciato i tempi e si sono rivelate fin da subito stupidamente vanitose.

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