Nella speciale classifica dei film di spionaggio più amati di tutti i tempi I tre giorni del Condor (1975) di Sidney Pollack occupa sicuramente un posto speciale. Gli spettatori ricordano con precisione Robert Redford nei panni di un impacciato agente della Cia, di nome Condor, abituato a fare cruciverba, risolvere sistemi crittografati e che non ha mai impugnato una pistola in vita sua. Un uomo tranquillo e pacifico che svolge un lavoro semplice e di routine che un giorno esce semplicemente dal suo ufficio per prendere i panini per tutti i suoi colleghi e che rientrando si accorge che è avvenuta una terribile strage. Da quel momento verrà braccato, senza capire bene il perché, da un perfido killer dei servizi segreti interpretato dal gelido Max Von Sydow.
Quella storia densa di suspense venne tratta da un romanzo del 1974 intitolato I sei giorni del Condor (Rizzoli) scritto da James Grady. Un thriller che descriveva per la prima volta nel dettaglio il mondo degli agenti della Cia e la loro attività lavorativa. All'epoca erano usciti pochi saggi sull'argomento e James Grady sfruttò a pieno la sua esperienza di giornalista investigativo per poter ricostruire il mondo dei servizi segreti americani, cercando di raccontarne anche la metà oscura. La carriera letteraria dell'Agente Condor è quindi proseguita nel successivo L'ombra del Condor (1975, Bur), gli ha garantito un piccolo cammeo in Mad Dogs (2007, Sonzogno) e un ritorno in scena da protagonista nel recente Il ritorno del Condor (Rizzoli). Un thriller che ci mostra quest'eroe anziano, sopravvissuto alla terribile esperienza delle missioni in Afghanistan, fuoriuscito da una clinica psichiatrica, soggetto a depressione. Un uomo spaventato che vede pericoli e complotti ovunque e che si trova smarrito in un mondo in cui non valgono più le regole del mondo delle spie di una volta. Sarà il ritrovamento del cadavere di uno sconosciuto crocifisso sopra il camino di casa sua a costringere Condor a ritornare in azione e a fare i conti, una volta per tutte, con i fantasmi del suo passato.
James Grady, di passaggio in Italia nei giorni scorsi a Piacenza in occasione del festival «Dal Mississippi al Po», ammette di essersi reso conto subito dopo il successo del film di Sidney Pollack che «sarebbe stato impossibile portare a termine la saga che avevo progettato con il mio eroe così come l'avevo originariamente strutturata in cinque romanzi, perché l'impatto di Robert Redford era stato culturalmente troppo intenso e speciale».
Ma allora perché ha deciso di proseguirla anni dopo?
«Dopo l'11 settembre ho avvertito che erano avvenuti grandi cambiamenti nel mondo dello spionaggio e della cultura e mi è parso che, per poterli raccontare, Condor fosse il personaggio migliore che potessi usare. Per cui ho scritto prima un romanzo breve intitolato condor.net , con un eroe diverso ma dallo stesso nome in codice. Poi gli ho offerto un cameo in una mia storia dedicata al manicomio segreto della Cia e intitolata Mad Dogs . Quindi l'ho fatto ricomparire ne Il ritorno del Condor , ricalcando volontariamente la cadenza, lo stile e l'atmosfera del primo romanzo della saga. E ho il sospetto che le avventure del mio eroe non siano ancora finite».
Perché lo ha portato sull'orlo della follia?
«Ho fatto finire Condor in manicomio perché volevo far capire ai lettori il pesante effetto che la vita di una spia esercita su un essere umano».
Come nacque l'idea primigenia de I sei giorni del Condor?
«Ero uno studente universitario e lavoravo per il Senato degli Stati Uniti, a Washington. Ogni mattina, mentre mi recavo al lavoro al Campidoglio, passavo accanto a una grande casa di quelle a schiera, con una targa di ottone sulla porta che aveva un'aria decisamente “finta”. In realtà, era ed è ancora oggi la sede dell'American Historical Society. Mi sono chiesto: “E se questa casa fosse una trovata della Cia? E se tornassi in ufficio dopo aver pranzato e trovassi tutti morti?”».
Può descriverci Condor?
«All'inizio della saga Ronald Malcolm è un innocente, ingenuo e mosso da buone intenzioni, che si ribella contro il suo fato e che lotta contro forze che stanno cercando di ammazzarlo e che sembra che in passato lo abbiano in qualche modo protetto… Il fatto che sia così poco informato diventa il suo punto di forza piuttosto che una debolezza. E poi, nell'arco della sua leggenda, si trasforma in un vero e proprio eroe, indurito dalla lotta ed esperto, in seno a un mondo oscuro che quasi lo uccide».
Come sono i suoi nemici?
«Sono uomini spietati, lontanissimi da qualsiasi tipo di morale. Le loro motivazioni sono tutte al servizio di sé stessi o di qualche finto concetto istituzionale patriottico. Non sono mai super-cattivi, sono simili a qualsiasi uomo comune che decida di respingere per sempre una prospettiva morale».
Cos'è per lei il noir?
«Per me, la letteratura e la cinematografia noir sono “letteratura di testimonianza”, esperienza, sguardi inflessibili sulle strade in cui tutti viviamo. Scorgo arte noir in dipinti di Edward Hopper e altri artisti, in poesie, in canzoni: Bruce Springsteen è sicuramente il più grande autore americano della mia generazione. A volte si pensa al noir come a una serie di storie cupe, buie, in parte perché i film che hanno dato maggior risalto a questo genere sono stati girati con mezzi così poveri che spesso non c'erano nemmeno le luci di riempimento. Per me una vera storia noir, anche la più cupa, deve contenere un elemento o una chance di redenzione. Un elemento di luce, anche se non è detto che venga colto o conquistato dal protagonista.
Se il noir non guarda alla luce, diventa narcisista, masochista, sadico. È interessante come io non mi sia mai considerato un autore noir finché i fan e i critici italiani e francesi non hanno inserito me e il mio lavoro in quella categoria».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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