RigaDi tutti i 27 Paesi della Ue, la Lettonia è quello che è stato colpito più duramente dalla crisi, al punto che Commissione europea e Fondo Monetario internazionale hanno dovuto intervenire per scongiurare il pericolo di default. Ma, a suo onore, è anche quello che ha reagito con maggiore determinazione, adottando provvedimenti che sarebbero impensabili in Europa occidentale; e, nonostante la serie di rovesci subiti, rimane deciso a non svalutare, a rimettere in sesto i suoi conti entro il 2012 e ad adottare leuro l'anno successivo. Abbiamo chiesto al ministro degli Esteri Maris Riekstins, un ex diplomatico quarantaseienne, perché il suo Paese sia stato colpito più di altri dalla recessione e che cosa stia facendo per uscirne.
«Bisogna risalire al 2004, quando la Lettonia è diventata membro della UE. Da allora, il nostro pil è aumentato in media del 10% l'anno, ma è stata una crescita artificiale, basata su un credito troppo facile e su un'orgia consumistica che ha prodotto un'inflazione fuori controllo, una bolla immobiliare e un deficit insostenibile della bilancia dei pagamenti. Abbiamo anche commesso l'errore di aumentare troppo gli stipendi dei dipendenti pubblici, nel tentativo di contrastare una fuga di cervelli. Quando abbiamo cercato di correre ai ripari, è scoppiata la recessione mondiale, e tra ottobre e novembre abbiamo dovuto salvare, letteralmente svenandoci, la Parex, seconda banca del Paese con molti titoli tossici in portafoglio».
Siete soddisfatti dell'aiuto ricevuto dagli organismi internazionali?
«Non possiamo lamentarci né nell'Europa né dellFmi, anche perché noi abbiamo soddisfatto tutte le loro richieste. Abbiamo tagliato la spesa pubblica di 700 milioni di euro - solo il mio ministero ha ridotto l'organico di 130 dipendenti - riducendo i fondi per la previdenza sociale, l'istruzione e la sanità e chiudendo alcuni ospedali. D'accordo con le parti sociali, abbiamo anche decretato una temporanea diminuzione di stipendi e pensioni, in certi casi fino al 20 per cento».
In che misura la crisi ha compromesso le vostre possibilità di aderire all'Unione monetaria?
«Prima della crisi eravamo in regola con tutti i parametri di Maastricht, eccetto l'inflazione. Ora questo è andato a posto, ma è saltato il rapporto deficit-Pil, che quest'anno sarà del 10 per cento e avrà bisogno di tre anni per rientrare. Speriamo di adottare l'Euro nel 2013».
Perché, nonostante tutto, i cittadini lettoni amano poco l'Europa?
«Molti non la capiscono, molti non amano l'eccesso di normativa, ed è diffusa l'impressione che nella trattativa per l'adesione siamo stati trattati male. Gli agricoltori si sentono discriminati, perché ricevono meno aiuti dei loro collegi francesi o tedeschi. Ciò nonostante, la partecipazione alle elezioni è stata del 53 per cento, nettamente superiore alla media europea».
Perché invece la Nato è molto più popolare, anche se vi costringe a tenere un contingente di 160 uomini in Afghanistan che, rispetto alla vostra popolazione, è il secondo più numeroso dell'Alleanza?
«Perché la partecipazione alla Nato ci dà sicurezza: ci protegge contro possibili rigurgiti imperiali della Russia e comunque garantisce la nostra indipendenza, che ha solo 18 anni. Il prezzo afghano lo paghiamo volentieri».
Indipendenza o no, dipendete anche voi dalla Russia per le forniture di energia. Non avete paura di finire come l'Ucraina?
«Dipendiamo dalla Russia solo per il 30 per cento e comunque paghiamo per il metano il prezzo che ci è stato chiesto. Inoltre, i russi dipendono a loro volta da noi, perché d'estate immagazziniamo per loro conto grandi quantità di gas che poi gli restituiamo durante l'inverno. Comunque ci apprestiamo a costruire, in società con Lituania ed Estonia, una centrale nucleare».
Siete soddisfatti del nuovo approccio più morbido di Obama verso la Russia?
«È troppo presto per definire morbido il suo approccio. Certamente ascolta di più del suo predecessore ma se poi sia anche più cedevole resta da vedere. Certamente, noi restiamo del parere che Ucraina e Georgia hanno tutti i diritti di aderire a Nato e Ue, a patto che rispettino i criteri».
Che problemi vi crea la fortissima minoranza russa, e in particolare quei 400mila che, per non passare l'esame di lingua lettone, non hanno preso finora la vostra cittadinanza?
«Qui non c'è una minoranza russa omogenea: alcuni sono arrivati ai tempi di Pietro il Grande, altri nel XIX secolo, altri ancora ai tempi dell'Urss. Sono soprattutto questi ultimi, abituati a essere i padroni, che rifiutano di integrarsi, ma i loro discendenti, attratti dalla possibilità di avere un passaporto europeo, stanno gradualmente cambiando idea».
Avete ratificato il Trattato di Lisbona: che cosa vi aspettate da una Europa più coesa?
«Noi siamo piccoli, perciò vogliamo un'Europa forte. Per la presidenza, non abbiamo favoriti, ma vogliamo qualcuno che ci creda davvero».
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