«Così nel ’92 partì il dialogo Israele-Vaticano»

Che qualcosa sarebbe presto cambiato nelle relazioni tra il suo Paese e il Vaticano Avi Pazner, ambasciatore d’Israele in Italia dal ’91 al ’95, lo capì un giorno di primavera, quando incontrò Papa Giovanni Paolo II. Il Pontefice, racconta, lo ascoltò in silenzio. Era il 1992. La Chiesa e il governo dello Stato d’Israele firmarono un accordo diplomatico l’anno dopo. Ieri, dal monte Nebo, da dove Mosè - è scritto nella Bibbia - vide per la prima volta la Terra Promessa, Benedetto XVI ha parlato di «legame inseparabile» tra Chiesa cattolica e popolo ebraico.
Che cosa è successo in quegli anni?
«Sono stato io, in qualità d’ambasciatore israeliano, a negoziare relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Arrivai a Roma nel novembre 1991 e al primo posto sulla mia agenda c’era il tentativo d’aprire le porte al dialogo con il Vaticano. Mi misi subito al lavoro».
E cosa faceva? Chi incontrava?
«Mi vedevo con monsignor Jean-Louis Touran, ministro degli Esteri vaticano, con il cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato, e altri prelati. Per mesi cercai di fare progressi. Poi, qualcuno mi disse: “Forse il problema è teologico, tra cristianesimo e giudaismo, e non politico”. In questo caso, la situazione sarebbe stata molto difficile da sbloccare. Mi fu così consigliato d’incontrare il cardinale Joseph Ratzinger, allora a capo della Congregazione per la dottrina della fede. Ci andai».
E cosa le disse Ratzinger?
«Mi disse: “Non c’è assolutamente nessun problema teologico”. Fui incoraggiato dalle sue parole. Tornai da monsignor Touran: “Mi ha detto che non si tratta di un problema teologico, ma politico. Quindi, perché non lo risolviamo?”. Soltanto il Papa, a questo punto, avrebbe potuto fare qualcosa. Chiesi un incontro con il Santo Padre. Non essendo ambasciatore in Vaticano, domandai un’udienza privata».
Come andò l’incontro con il Papa?
«Fui ricevuto da Giovanni Paolo II con mia moglie. Ci accolse in ebraico: “Shalom, shalom”, disse. Parlai del problema della Chiesa con il popolo ebraico, delle sofferenze degli ebrei in esilio. C’era stata da poco la conferenza di Madrid, nel 1991; in Medio Oriente c’era una nuova primavera politica. Dissi: “Hanno relazioni con noi India, Cina, Russia, persino Paesi arabi come l’Egitto. Non c’è nulla da temere”. Il Papa non parlò molto. Quando finii disse: “Quindi, ambasciatore, mi vuole dire che siamo i peggiori?”. “No, che siete gli ultimi”. Rise. “Nella nostra religione - aggiunse - gli ultimi saranno i primi”. Capii allora che c’erano speranze. Qualche settimana più tardi, Touran mi chiamò: “Il Santo Padre, dopo il vostro incontro, vorrebbe aprire negoziati con Israele”».
Questo è successo 17 anni fa. A che punto siamo oggi nelle relazioni?
«Oggi ci sono relazioni ufficiali. Benedetto XVI è già il terzo Papa a visitare la Terra Santa (dopo Paolo VI nel 1964, Giovanni Paolo II nel 2000, ndr). Karol Wojtyla è stato alla sinagoga di Roma: siamo molto lontani dalla triste storia passata».
Ma ci sono ancora tensioni e l’accordo del 1993 non ha risolto alcune questioni.
«Ora c’è un dialogo ed è più semplice risolvere i problemi. Ci sarà sempre un dibattito aperto tra noi e il Vaticano.

Loro hanno interessi religiosi in Israele, noi controlliamo i luoghi sacri. Quando ci sono interessi religiosi e politici in campo, c’è dibattito. Quando diverse religioni convivono nella stessa terra, ci sono problemi. Ma con un dialogo aperto si possono risolvere».

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