Così la scuola può tornare italiana

Basta delirare di "aperture" e multiculturalismo. L'istruzione deve trasmettere lingua e valori di una nazione

Confermandosi fra i migliori elementi della squadra di governo, il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini ha posto un tetto del 30 per cento di alunni stranieri nelle classi elementari, medie e superiori. Cosa ancor più encomiabile, prima di passare ai fatti non ha aperto «tavoli di confronto» o cercato il dialogo con le generiche ma chiassose «parti sociali». Ritenendo il provvedimento necessario per evitare il formarsi di «classi ghetto» e per garantire che la nostra scuola mantenga «con orgoglio» le proprie tradizioni storiche insegnando «la cultura del nostro Paese», ha preso carta e penna impartendo ai vari Provveditorati le dovute indicazioni. Cosa fatta, capo ha.

Come c’era da attendersi, pur non avendo al solito capito un acca, il rodomonte di Montenero di Bisaccia s’è subito scagliato contro la Gelmini accusandola di fare del razzismo «in nome della salvaguardia della specie dell’identità nazionale» (espressione che da sola imporrebbe alla forza pubblica di tradurre Di Pietro in un’aula scolastica, prima o seconda elementare, e lì obbligarlo a ripartire dall’abbiccì). Aggiungendo che «il problema della legalità deve avere come obiettivo il rispetto delle regole dello stato di diritto» - concetto che c’entra come i cavoli a merenda, ma insistere a volerli mettere insieme è proprio uno dei talenti di Di Pietro - e che «se gli americani avessero adottato il metodo del ministro Gelmini, oggi gli Stati Uniti non sarebbero quella società aperta e multiculturale che è stata in grado di eleggere un presidente di colore».

Quasi che Obama sia venuto su parlando swahili e frequentando corsi di studi semitribali e non da americano orgoglioso delle tradizioni storiche, culturali e politiche del suo Paese. Ma vai a fargliele capire, certe cose, a Di Pietro. È come voler cavare sangue dalle rape, o dai broccoli. Chiunque abbia un po’ di buon senso o non si sia rimbambito al canto delle sirene della società multietnica capisce che le «classi ghetto» - e in alcune la presenza di immigrati sfiora il cento per cento - rappresentano una iattura sia per gli studenti italiani sia per quelli provenienti da oltre confine. I primi si trovano infatti costretti a decelerare il proprio per stare al passo di compagni di banco che poco masticano la nostra lingua e stentano ad adattarsi all’impronta culturale che distingue il nostro insegnamento da quello, mettiamo, della Mauritania.

Ai secondi, le «classi ghetto» forniscono un’occasione di più per ghettizzarsi ulteriormente rintanandosi nel proprio idioma, nelle proprie consuetudini, costumi e tradizioni rimandando sine die quel processo di integrazione che resta l’utopistico approdo d’ogni società che si vuole politicamente corretta. Quando invece in una classe il numero degli studenti allogeni è limitato o comunque non soverchiante, il moto naturale di costoro sarà di farsi accettare, di amalgamarsi alla scolaresca cominciando con l’affinare lo strumento principe della comunicazione: l’italiano.

Perché il punto non è, come pretenderebbe la inopinatamente riapparsa Livia Turco, «far diventare la scuola italiana una scuola veramente interculturale», ambizione vetero internazionalista che andava forse bene per università «Patrice Lumumba» moscovite. Il punto è, e a tal proposito il provvedimento del ministro Gelmini giunge quanto mai opportuno, farla restare italiana: scuola e insegnamento italiano.

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