Così si cucinano piacere e lusso

nostro inviato a Quistello
Tasse, tante tasse, crisi economica e crisi dell’alta ristorazione, voglia di trattoria e di etnico, di cucina bio-diversa e salutare, di pasti completi a 20 euro, tutto vero, poi però sono sempre pieni indirizzi di lusso assoluto e conto robusto come un palestrato a tre ante. Il motivo? Fanno una cucina rassicurante. Le novità spaventano. Chi boccia un cuoco creativo, usa tre parole: «È nouvelle cuisine». Non hanno problemi coloro che operano variazioni minime, giusto un adeguarsi ai tempi per piacere sempre. E questo accade anche dai cento euro in su, non solo nei localoni da cento coperti. Tra l’altro con una curiosa considerazione: un tempo spaventavano i conti che superavano le centomila lire, adesso quelli over 100 , il doppio.
L’altra grande differenza tra i locali di alta cucina vuoti e quelli pieni la fa il manico, la capacità di un cuoco di essere anche un ristoratore, un «animale da sala», o di avere un alter-ego tra i tavoli. Questo spiega perché da Vissani, a Baschi in Umbria, rischi facilmente di essere l’unico cliente, nonostante Gianfranco sia uno chef superlativo e suo figlio Luca cresca bene, e all’Ambasciata, a Quistello nel Mantovano, o prenoti o vai altrove. È che lì abbiamo Romano Tamani a supervisionare forni, fornelli e comande, e suo fratello Carlo (all’anagrafe Francesco, ma è stato un disguido) ai vini e alle coccole così come Giorgio Pinchiorri e Annie Feolde si dividono i ruoli all’Enoteca Pinchiorri a Firenze, Nadia e Antonio Santini al Pescatore a Canneto (Mantova), i tanti fratelli Cerea da Vittorio a Brusaporto (Bergamo), Gianluigi Morini e Valentino Marcattilii al San Domenico a Imola (Bologna), Lorenzo Viani e Gioacchino Pontrelli da Lorenzo a Forte dei Marmi (Lucca).
Sono tutti posti dove non si va tanto per mangiare bene, benissimo o benino a seconda dei gusti, ma perché si è certi che si sta benissimo, trattati come re e regine, viziati con quelle mille accortezze che concorrono a formare un ristorante di successo, ridimensionando in un certo senso l’importanza del piatto perché quando un primo alla Pinchiorri costa in media 80 (ottanta) euro è lampante che non si pagano solo gli 80 grammi di spaghetti più sugo, ma anche la possibilità di dire in giro che si è cenato lì. Di sicuro sono tutte cucine rassicuranti: la maionese montata al momento da Lorenzo vale di per sé la prenotazione come i tortelli di zucca di Nadia Santini e i ciccioli dei Tamani il viaggio. Sono posti dove la sola asticella alta alta è rappresentata dal prezzo. Per il cibo siamo alle carte di credito gold, per molti vini al mutuo. E se uno si chiede «me lo posso permettere?», è perché non può. Però bisogna porsi anche un’altra domanda: quando costa un capo di alta moda? E una fuoriserie? E il quadro originale di un maestro?
Prendo i fratelli Tamani come esempio felice di un’alta ristorazione che sa regalare uno spettacolo, nel loro caso in una sala a tutto fiori e frutti, argenti e specchi, tappeti, quadri e libri ricavata dalla chiusura di quello che era il cortiletto della trattoria dei genitori. Ed è bella una cucina a vista che ha una vetrata larga e alta, un cristallo dietro al quale i cuochi si muovono come mimi, silenziosi per i clienti che da questa parte li vedono ma non li sentono (ed è sempre meglio così, perché la tensione nel loro mestiere è tale che i fan... volano facilmente). Ci sono pochi posti coccoli come l’Ambasciata, il San Domenico di sicuro, il Pescatore anche e poi si comincia a distinguere.
Arrivi a Quistello, parcheggi (l’elicottero al di là della strada), passi in toilette (cosa che, purtroppo, non è scontata nemmeno in locali di simile levatura) e poi ti accomodi, scordando subito di avere fatto parecchi chilometri perché Quistello è l’ombelico della pianura padana, e proprio per questo lontana dalle grandi città e scomoda. E quando calerà la nebbia, fenderla sarà un ulteriore atto di fede verso la cucina di Romano e i vini di Carlo.
Il loro benvenuto è a Viagra di Parma e ciccioli di Modena. Apri la carta e fa piacere leggere una frase di Lucio Dalla: «L’Ambasciata è il bar di Guerre Stellari». Verissimo. C’è un primo menù a 150 che evoca il territorio attorno. Ve n’è un secondo di Stravaganze di terra e d’acqua allo stesso prezzo e poi il grande menù nel segno del Tartufo delle Golene del Po: Le uova di faraona, le Tagliatelle gialle, le Cappe sante al gratin, il Ventaglio di vitello grigliato... tutte proposte su cui piovono lamelle di tartufo, cosa che spiega un «cip» di 250 . Cip, perché bisogna aggiungere le bevande (il loro Lambrusco è un signor vino) e qualche vizio extra. A leggere la carta, si rimane stregati dalla selezione dei salumi e uno gli scappa di dire «perché non ne mette una al centro?». Poi è leggendario (così è pure scritto) nella sua «follia» espressiva il Tortello di Zucca, due nel piatto, ma grandi come uova di struzzo aperte. Vi assicuro che saziano.

E vogliamo mettere l’anatra muta al forno, rigorosamente per due? E il festival di dolcetti? E il doggy bag? Da applausi: in un posto da 400/500 in due, i Tamani vincono perché all’uscita ti consegnano il sacchetto con gli avanzi di sbrisolona, sabbiosa, tortelli fritti, crostata di pere e prima che tu chiuda la portiera anche un zucca «così a casa prova a fare i tortelli». E a quel punto hai completamente scordato azoto, furbate molecolari, sushi, tapas. Stai bene, punto.

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