Politica

Così Tronchetti è sfuggito alla trappola

Marcello Zacché

da Milano

Il quadro dei contatti della scorsa settimana tra Palazzo Chigi e Telecom Italia è ormai completo: Prodi ha detto di non essere stato messo al corrente del riassetto del gruppo, mentre Tronchetti Provera ha dimostrato che esisteva addirittura un documento scritto con il quale la presidenza del Consiglio consigliava a Telecom il da farsi, cioè lo scorporo della Rete, quella fissa. Allora è evidente che il premier si è infuriato per un solo motivo possibile: lo scorporo e la futura cessione non della Rete, ma di Tim, la telefonia mobile. Però manca un tassello: perché Tim non va bene? Per capirlo bisogna porsi la domanda più semplice: cui prodest? A chi giova un Tronchetti debole? Debole per i 41,3 miliardi di debiti, in crescita, della sua Telecom, che langue in Borsa a 2,2 euro per azione quando i titoli detenuti per controllarla (pari al 18% del capitale) sono in carico al doppio, e i cui ricavi ristagnano. Con soli 10 miliardi, come ha calcolato lo studio «governativo» del consulente Angelo Rovati, chiunque potrebbe scalarne il 29% senza lanciare neanche l’Opa, spendendo 5 volte di meno di quanto fece Colaninno nel '99? A chi giova? O, meglio, a chi non giova un Tronchetti forte?
La risposta, che il Giornale è in grado di ricostruire, è finanziaria prima che politica. Primo elemento: Prodi è arrivato a Palazzo Chigi con grandi progetti di politica economica, fiscale, industriale. L’intenzione è rifondare il Paese. E, preferibilmente, di farlo con le persone a lui più vicine. Tra le partite economiche della rifondazione ci sono i trasporti (Autostrade), le tlc (Telecom), le banche e i media. Condizione necessaria e sufficiente perché l’operazione vada nella direzione sperata è che la regia dei riassetti sia unica e segua una linea strategica condivisa.
Secondo elemento: la linea si può chiamare neo-statalismo. O anche in altro modo, ma è chiara: recuperare la cultura del grande Iri, che Prodi ha guidato due volte. E proporre, per la crisi dei grandi capitalisti italiani, la soluzione pubblica, ormai inevitabile, come suggerisce sulla Repubblica di ieri Edmondo Berselli, membro autorevole del think tank, del serbatoio d’idee del professore. Persino Tommaso Padoa-Schioppa dà ormai segnali di condivisione di questa soluzione. La quale, declinata nel XXI secolo, guarda in tre direzioni: alla Cdp (Cassa Depositi e Prestiti, al 70% del Tesoro), alle Fondazioni (che hanno il restante 30% di Cdp) e alle grandi banche. O forse all’unica e nuova e grande banca del nord: San Paolo-Intesa, che ha a sua volta le Fondazioni come primo socio, votata per natura e progetto ad accompagnare lo sviluppo delle imprese, nonché voluta e guidata da Giovanni Bazoli: non un banchiere qualunque, ma il potere forte di più stretto riferimento per Prodi.
Terzo elemento: non tutto è andato liscio. Di certo non la vicenda Autostrade, dove i Benetton si sono trovati da sé l’alleato estero: operazione bloccata dal governo. Mentre è subito andata in porto la grande operazione di Intesa, che si è comprata il San Paolo a buon prezzo anche approfittando della nuova minaccia spagnola (Santander) che incombeva su Torino. Ed è nata la superbanca di Bazoli. In questo senso anche l’operazione Telecom stava prendendo la direzione giusta: per salvare Telecom dai debiti, Rovati ha suggerito lo scorporo della Rete, magari con la cessione della stessa alla Cdp. Soluzione modello Iri (la Cdp già controlla la rete elettrica Terna, arrivata da Enel) che permetteva a quel punto di tenere sotto controllo l’asset vitale delle tlc, cioè l’ultimo miglio, da cui passano la voce e, con l’Adsl, tutto il resto, tivù compresa. Le potenzialità economiche e il peso «politico» sono lì. Basta pensare ai suoi 25 milioni di clienti abbonati (per dire: la Rai ne ha poco più di 16), o alla delicatezza del tema intercettazioni. E nella Rete avrebbero poi potuto entrare anche le Fondazioni e la Superbanca di Bazoli.
Quarto elemento: Tronchetti ha sparigliato le carte e ha pensato a un sistema per salvare Telecom senza chiedere aiuto alla nuova Iri o a Bazoli. Bastava vendere non la Rete, ma la Tim: vale 40 miliardi, il problema debiti è risolto. Chi la prende poco importa, non è strategica: la rete mobile, venduta, può continuare a essere economicamente utilizzata come «operatore virtuale», in pratica riaffittandola. È questo il «bingo» che è stato consigliato a Tronchetti dai suoi banchieri di fiducia, a cominciare da Gerardo Braggiotti, per evitare di finire subordinato al neo-prodismo.
Ecco perché il piano non va più bene a Palazzo Chigi. Anche perché, a ben guardare, salta per aria anche ogni possibile iniziativa sul riassetto dei media.

Compreso il futuro del Corriere della Sera: se infatti, nell’ambito dell’azionariato di Rcs, Bazoli e Prodi contavano di arruolare Tronchetti, che fino a oggi ha fatto invece blocco sull’asse vincente Montezemolo-Della Valle-Capitalia, anche questa missione è destinata a fallire.
Marcello Zacché

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