«Cosa mi ha portato l’età? Il piacere dell’incertezza»

Nella ricorrenza di quello che i nostri cugini d’oltralpe chiamano il sessanta-decimo compleanno (i francesi sono esemplari nella dissimulazione formale) incontriamo il maestro Riccardo Muti che ha appena iniziato le prove di Macbeth al Festival di Salisburgo. Per fortuna con Muti si possono evitare gli inutili bilanci retrospettivi e, come ama ripetere il Maestro, la data del suo compleanno coincide da quarantuno anni con la sua presenza a Salisburgo. Questa città significa Musica, eseguita con la meravigliosa Orchestra Filarmonica di Vienna, che lo ha nominato membro onorario.
«Certo - dice Muti - non sono presente nella mia terra, quella Puglia bruciata e bruciante che vorrei ritrovare d’estate. Non è un proclama patetico, ma umano, dopo quattro decenni sulle rive della Salzach».
Qualcuno ha parlato di un suo desiderio di ridurre il numero delle opere.
«No. Opere ne ho sempre dirette poche (sola eccezione le otto di Verdi alla Scala, per il centenario del 2001). C’è una ragione pratica: per ogni opera è necessaria una lunga preparazione».
Tema delicato: nei «grandi» teatri aumentano i titoli, ma spariscono le prove.
«Non voglio fare l’anziano direttore che brontola, però ci sono cose che bisognerebbe raddrizzare. Giusto “aumentare la produzione”, ma i titoli non debbono essere buttati a caso. Senza il giusto periodo di prove non crescono nemmeno orchestra, coro, cantanti e maestri collaboratori».
L’odierna sempre maggiore complessità della messa in scena è d’ostacolo?
«Bisognerebbe tornare al concetto che la regia drammatico-musicale nasce nelle prove al pianoforte, come ci hanno insegnato i nostri maestri. Il mio, Antonino Votto, mi raccontò che cercando Arturo Toscanini un Falstaff, gli diede l’incarico di far studiare per sei mesi il candidato individuato: Mariano Stabile. Quando andarono in via Durini a farsi sentire, Toscanini si convinse che era giusto affidargli la parte: “Lavora per altri sei mesi e torna a farmelo sentire”. Nel mio piccolo - non voglio fare paragoni - quando feci Traviata a Salisburgo, un drammaturgo viennese coltissimo, Marcel Prawy, rimase colpito perché mi fermai venti minuti col baritono per trovare lo spazio infinitesimale, l’intenzione esatta sulle parole Col tempo. Per solito si sente buttare via la frase Bella voi siete e giovine. Col tempo! Ma Germont sta offendendo l’amore profondo di Violetta per Alfredo. Ci deve essere un’esitazione: troppa, diventa manierata; poca, sparisce. Non è perdere venti minuti su due parole. Col tempo! Che parole!»
Il tempo, dunque.
«Oggi taluni direttori d’orchestra arrivano al paradosso di dire “con me”».
Segno che non hanno compiuto il lavoro fondamentale, la concertazione al pianoforte. E quindi manca l’intesa.
«Trascurano le prove in sala perché non vengono più da un’educazione che nasce dal contatto col mondo del canto e del teatro, come avevano fatto anche direttori come Karajan e Solti».
Solti che proprio Toscanini conobbe a Salisburgo, chiedendo come pianista accompagnatore quel «giovane ungherese che suona bene al pianoforte il Flauto Magico!».
«“Accompagnamento” e “Accompagnare” sono entrambi difficili ma cose diverse. Accompagnare, per me è sostenere la melodia insieme al timbro e al fraseggio della voce. Le “terzine” in un lied di Schubert non sono mero “accompagnamento”, sono musica insieme. Insisto sempre sul modo in cui il cantante porge la fase, perché determina il modo con cui il direttore prepara o conclude quella frase. C’è una corrispondenza di amorosi sensi fra cantanti e direttore. Tutto questo fa parte di un insegnamento che si va perdendo col tempo».
Oggi chi canta bene Rossini e Mozart ha già una preparazione di base.
«Leggere la musica, però, non significa essere buon musicista. Cantante-musicista si nasce. Poi si coltiva. I grandi cantanti sono quelli che danno risalto alla frase: Pertile, Björling, Gedda, Fischer-Dieskau, la Callas».
Una cosa che la irrita - ancor oggi dopo decenni di esperienza sul campo - è la superficialità in cui cadono tanti che si accreditano addetti ai lavori, spia di una diffusa ignoranza...
«Quando si legge che il direttore ha realizzato bene o male lo “spartito”. Dovrebbe usare la “partitura”. Nessuno parla di biochimica, medicina, chirurgia, ma di musica (e calcio) parlano tutti. Mi fa sorridere il cosiddetto “intenditore”, il vociologo, come quello che in una trasmissione sul do della pira mandava registrazioni in cui quel do era abbassato al si naturale. Forse sarebbe meglio che ognuno facesse il proprio mestiere».
Stupiscono i toni e i giudizi inappellabili. Questo si fa così o non si fa così.
«Rifacendo Macbeth qui a Salisburgo - un’opera che ho diretto tante volte - mi assalgono dubbi. Già da quell’attacco del Preludio che sa di infernale cornamusa scozzese, dove gli intervalli sono elementi circolari che Verdi impiega ogni volta che si riferisce al Destino. Posso passare ore sull’analisi di quest’inizio che pare semplice, ma oltre alla realizzazione delle intenzioni di Verdi c’è uno spazio infinito. Lì mi coglie l’incertezza, quella che nasce dall’esperienza. Gli anni portano una maggiore consapevolezza del proprio compito, e il risultato è un enorme punto interrogativo».
Non ha mai pensato di tramandare questo prezioso scrigno di esperienze?
«Sì, girando il mondo da tanti decenni sento che quello che mi è stato tramandato sta sparendo. E i cantanti sono quelli che sentono di più la mancanza di una “guida”. L’opera è un cammino. Ferma restando l’esigenza sacra di esprimersi secondo la propria sensibilità e il proprio tempo, tutto e tutti devono convergere unitariamente. Se si perde questa catena, l’esperienza non si trasforma in realtà esecutiva».
Un primo passo lei lo ha fatto introducendo, in occasione del doveroso concorso di direzione d’orchestra intitolato a Georg Solti a Chicago, una prova obbligatoria di accompagnamento e concertazione dal pianoforte di un’aria e un duetto.
«È stato uno sfacelo: non sapevano cosa dire. D’altra parte se chiedessimo di concertare dal pianoforte a molti in carriera, ci sarebbero delle sorprese».
A Salisburgo dirige Macbeth, dopo le trionfali recite in primavera di Nabucco al Teatro dell’Opera di Roma, dove tornerà nella prossima stagione appunto con questa edizione di Macbeth e con Attila. Sempre Verdi, in vista delle celebrazioni del 2013.
«Si dovrebbe celebrare Verdi impostando un nuovo discorso interpretativo, evitando di incancrenirsi su certe cosiddette “tradizioni” che spingono verso un atletismo fuori misura. Studi seri, con il coraggio di partire dall’originale. Sento come una medaglia l’aver riportato la “trilogia popolare” (Rigoletto, Traviata e Trovatore) alla Scala, sfidando alcuni tabù, diciamo poco nobili. Rigoletto, ad esempio, non è un gobbo folle che grida mi coglierà sventura con un acuto non scritto su cui rimane mezz’ora. Lo deve quasi sussurrare: il suo è un pensiero truce e recondito».
E i suoi nuovi incontri musicali?
«Vorrei fare la Missa solemnis di Beethoven che mi ha sempre fatto paura; prima o poi il Tristano e Isotta e completare il ciclo delle sinfonie di Bruckner. La musica contemporanea continuo a commissionarla: un direttore deve farlo, perché un nuovo profeta deve apparire all’orizzonte. In attesa approfondisco la grandezza di Verdi: è una questione di onestà nei confronti di questo gigante, della sua vera umanità. Non scopro niente, ma sono convinto che ci rappresenta a livello universale, e il mio scopo è rispettare la sua dignità di musicista e grande uomo di teatro».
Verdi, dunque, sempre attuale.


«Pochi giorni fa, quando ho visto duecento bambini cantare Verdi a Nairobi con una luce vivida di passione negli occhi, questo mi ha fatto amare ancora di più Verdi. Me lo lasci dire, non è retorica, in quel momento mi sono sentito fiero di essere italiano».
E noi con il Maestro Muti.

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