Avete presente film come «Un boss sotto stress» e «Terapia e pallottole»? Ecco, quella è la versione comica di un fenomeno che invece, nella realtà, appare drammaticamente seria. Per uscire dalla depressione i capiclan di Cosa Nostra, Mafia, Camorra e Ndrangheta non si stendono infatti sul lettino dello psicanalista, ma finiscono direttamente sul marmo dellobitorio: morti stecchini, anzi suicidi. Tra le grandi organizzazioni criminali gli affiliati che negli ultimi tempi hanno deciso di togliersi la vita sono aumentati in maniera clamorosa. A tenerne la macabra contabilità - ma soprattutto a investigarne le cause - sono due psicoterapeuti dellUniversità degli Sudi di Palermo, Franco Di Maria e Giorgio Falgares. Un estratto della loro ricerca si trova nellultimo numero della rivista scientifica Psicologia Contemporanea, diretta da Anna Oliverio Ferraris.
Partiamo dalle prime due domande-chiave: chi sono gli «uomini donore» che si sono suicidati e perché lo hanno fatto? Lelenco dei nomi sarebbe lungo, per questo i ricercatori siciliani si soffermano sugli esempi eblematici di Francesco Pastoia, Tanino Lo Presti e Salvatore Bonanno. Tre storie tra loro diverse ma accomunate da un identico disagio: «La colpa intollerabile di aver parlato troppo, in modo imprudente e con persone sbagliate». E quando si commettono simili errori «il suicidio può essere interpretato come un comportamento estremo di tipo espiatorio». Boss quindi sullorlo di una crisi di nervi per aver messo - loro malgrado - lo Stato in condizione di avere la meglio sul proprio gruppo di appartenenza. Le forze dellordine che disarticolano i le famiglie sequestrano i loro beni, arrestano i mammasantissima sono situazioni che gli «uomini donore» non possono tollerare perché minano i pilastri che sostengono potere e «cultura» mafiosa.
«È da diversi mesi - spiegano Di Maria e Falgares - che allinterno di Cosa Nostra si registrano numerosi casi di suicidio, che hanno coinvolto, in particolare, alcuni esponenti di spicco dei gruppi criminali vicini ai boss Provenzano e Lo Piccolo».
«Va chiarito - si legge nello studio ripreso da Psicologia Contemporanea - che le storie riportate sono accomunate dal fatto che chi si suicida non lo fa perché teme di essere ucciso o teme per la vita dei propri familiari. In effetti, non si tratta di collaboratori di giustizia, che temono per la propria vita e per questo chiedono aiuto allo Stato. Si evince nettamente, invece, che la scelta di togliersi la vita è espressione tragica e consapevole del proprio senso di devozione verso lorganizzazione, nei confronti della quale il mafioso ha involontariamente mancato di rispetto (in questo caso la morte è una vera e propria autopunizione)».
In questi casi - evidenziano i due psicoterapeuti palermitani -, laspetto più sorprendente è lestrema fragilità di questi soggetti (per i quali si può parlare di effettiva condizione depressiva), che sembra contraddire limmagine stereotipata delluomo donore forte, senza paura e virile. Si tratta di un aspetto messo in luce dal magistrato palermitano Antonio Ingroia che, in un recente articolo, avanza lipotesi che i casi di suicidio svelino uninedita fragilità dellidentità mafiosa, segno evidente di un profondo cambiamento nel rapporto con le organizzazione criminali, riconosciute ancora forti, ma anche profondamente segnate dallefficace controffensiva dello Stato. E quanto più questultimo mette a segno i suoi colpi, tanto più esso viene percepito da Cosa Nostra, Mafia, Camorra e Ndrangheta come «nemico»; non soltanto perché mette a rischio limpunità, ma anche perché minaccia il proprio gruppo di appartenenza, vissuto come unentità superiore, proprio come accade nelle subculture fondamentaliste di tipo religioso.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.