Politica

COSA VUOL DIRE UNA MOSCHEA AL POLO NORD

Ggrazie alla donazione di un anonimo magnate saudita, e all’accondiscendenza delle autorità norvegesi, sarà presto costruita una grande moschea al Polo Nord.

La notizia rientra fra quelle «incomprensibili» ai nostri occhi. A che cosa serva una moschea in mezzo ai ghiacci, in un Paese in cui la comunità islamica è intorno al 2 per cento, è cosa che ci pare faccia a pugni con la ragione. In realtà, quel che fa a pugni con la ragione è la nostra ormai incrostata abitudine a credere che tutto il mondo proceda seguendo le nostre categorie di pensiero. Ci illudiamo che tutto sia misurabile materialmente, o in termini di interessi «concreti»: e respingiamo a priori l’idea che ci sia invece ancora qualcuno che vive e opera con le categorie della religiosità, del sacro, del simbolo.

Chi spende denaro per costruire una moschea al Polo Nord sa perfettamente che un’opera del genere - se servisse solo per i fedeli della zona - non varrebbe la spesa. Ma sa anche che qualsiasi edificio venga edificato a Tromso (il comune di competenza) rientra poi nel Guinness dei primati; e quindi la moschea di Tromso sarà presto classificata non solo come la moschea, ma più in generale come il luogo di culto più a nord del pianeta.

Il mondo islamico comprende perfettamente il valore simbolico di un’iniziativa del genere. Non lo comprendiamo invece noi occidentali, imprigionati come siamo nella tragicomica ideologia del politically correct: è grottesco, ad esempio, che le autorità norvegesi abbiano espresso soddisfazione perché la moschea al Polo Nord «rispetterà i vincoli ambientali», senza avvertire un altro tipo di impatto, non «ambientale» ma ben più profondo.

Chi conosce la storia sa bene quanto sia illusorio il «dialogo» auspicato oggi anche da arcivescovi che nel programma pastorale invocano «una moschea per ogni quartiere». L’islam è una religione di conquista, e nel suo dialogare non c’è mai stato neppure il tentativo di convertire: la mitica «tolleranza» islamica consisteva nel lasciare a cristiani ed ebrei la loro fede per il semplice motivo che così diventavano sudditi ed erano tenuti al pagamento di un tributo, dal quale i discepoli di Maometto erano esentati. Che oggi non sia più riproponibile una metodologia del genere è evidente; ma che una strategia di conquista sia comunque in atto, è altrettanto evidente.

Non temo la vittoria dell’islam. Credo abbia ragione Vittorio Messori quando prevede che l’islamismo farà conti drammatici con quella modernità e quel razionalismo cui il cristianesimo è, nonostante tutto, sopravvissuto; e che perfino certi nostri «veleni» contribuiranno provvidenzialmente a mandare in crisi una religiosità fatta di rigidi formalismi.

Ma, citando ancora Messori, «la crisi dell’islam a contatto con i nostri valori e i nostri acidi solventi sarà un processo lungo e drammatico».

Commenti