Caro Granzotto, le parole del ministro Brunetta, «stabilire che lItalia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro non significa assolutamente nulla» mi ha invogliato a leggere la Costituzione (sì, non lavevo mai letta, come credo la maggior parte degli italiani) che in certe parti sembra il libro dei sogni. Nellinsieme, trovo anche io categorico e vacuo al tempo stesso larticolo primo, disattesi in pieno gli articoli che si riferiscono ai partiti e ai sindacati e sorprendente la mancanza di un richiamo alla dimensione religiosa. Eppure qualcuno ha definito la nostra «la Costituzione più bella del mondo».
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Inutile che le dica, caro Traverso, che sto dalla parte del ministro Brunetta. La nostra Costituzione sarà anche la più bella del mondo (ogni scarrafone è bello a mamma sua), ma è il risultato di un gigantesco papocchio - che se vuole possiamo anche chiamare confronto o mediazione, fa lo stesso - fra le anime liberale, comunista e cattolica della Costituente. Larticolo 1, «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro», fu richiesto con insistenza da Togliatti che lo pretendeva nella versione: «LItalia è una Repubblica di lavoratori». Vista limpossibilità di proclamare un altro fondamento, come ad esempio la libertà della persona, alla formula comunista Ugo La Malfa, Ignazio Silone e Gaetano Martino contrapposero «LItalia è Repubblica fondata sui diritti della libertà e i diritti del lavoro». Siccome nessuna delle due espressioni trovava il generale consenso, a far quadrare il cerchio ci pensò Amintore Fanfani: ed è grazie a lui che larticolo uno è quello che è. Insignificante, ma di palese stampo marxista (quello che Togliatti voleva): esso riecheggia infatti le carte costituzionali delle «Repubbliche democratiche» comuniste, a cominciare da quella sovietica («LUrss è uno Stato socialista di lavoratori e contadini») per finire a quella cubana («Cuba è uno stato socialista di lavoratori»). Molto si ci si accappigliò anche sul progetto di un preambolo che sottolineasse la dimensione sacra della Costituzione, con una invocazione a Dio o alle radici cristiane (le stesse che i costituenti europei non vollero riconoscere elaborando quella che avrebbe dovuto essere e non fu la Magna carta eurolandica). Il relatore, Giorgio La Pira, sostenne con passione lidea che per proclamare i diritti inalienabili della persona bisognava in via preliminare affermare solennemente «la radice spirituale e religiosa dell'uomo» perché in caso contrario «ledificio dei diritti imprescrittibili della persona umana resta senza base ed è destinato a crollare». Per questo, concludeva La Pira, la Costituzione doveva iniziare con una solenne proclamazione dei diritti «davanti a Dio».
Fu alla stretta finale - 22 dicembre 1947 - che La Pira chiese fosse posta ai voti questa breve formula di preambolo: «In nome di Dio il popolo italiano si dà la presente Costituzione». Sostenendo, non a torto, che la votazione avrebbe spaccato lassemblea proprio quando era chiamata ad approvare la Carta nel suo insieme, Togliatti, Calamandrei, Nitti e Concetto Marchesi fecero pressioni su La Pira affinché ritirasse la proposta. La più nota e pittoresca delle argomentazioni resta quella del comunista Marchesi: «È preferibile non nominare il nome di Dio invano». Calamandrei insistette invece sulla necessità di «non immiserire la discussione» aggiungendo che semmai un giusto preambolo sarebbe stato: «Il popolo italiano consacra alla memoria dei fratelli caduti per restituire allItalia libertà e onore la presente Costituzione».
La Costituzione, una carta fondata sul papocchio
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