COURBET

Rivoluzionario della «Comune», vittima della restaurazione, concluse la sua vita in esilio

Stenio Solinas
nostro inviato a Parigi
Arrivato davanti al quadro l’Imperatore si fermò. In quel 1853 le natiche della Bagneuse esposte al Salon di Parigi sembravano voler uscire dalla tela, impudiche e laide, piene di verità, e quindi senza mistero, prosaiche, e quindi senza grazia. «L’idiota popolare» era il nomignolo con cui nel Journal i fratelli Goncourt avevano ribattezzato Gustave Courbet: orfani dell’Ancien Régime e del suo sogno di bellezza, ne detestavano il realismo, l’assenza di armonia. Naturalmente detestavano anche la tronfia monarchia borghese di Napoleone III, non per nulla «Napoleone il piccolo», e adesso quelle due France così diverse eppure ai loro occhi così simili, si fronteggiavano: una sulla tela, d’un biancore livido e trionfante, l’altra in carne e ossa, scintillante nell’uniforme e nelle decorazioni. Nel silenzio un po’ nervoso del suo seguito, il sovrano rimase per un momento immobile, poi davanti a quelle carni disfatte alzò il frustino, finse una scudisciata e soddisfatto passò oltre. I cortigiani risero.
Più che un giudizio critico quella frustata mimetica era il riflesso di un’abitudine comportamentale: un sedere femminile a quello serviva, bello o brutto che fosse, aristocratico o plebeo. L’impero di Napoleone III era una caricatura dell’idea imperiale, come del resto il suo imperatore. Nel dare dignità artistica, per dimensioni e postura, alla moderna quotidianità, Courbet sottolineava consapevolmente lo scarto fra ciò che si sarebbe voluti essere e ciò che invece si era. Scudisciando quel didietro, Napoleone marcava inconsapevolmente la propria faccia. Ancora una quindicina d’anni e avrebbe perso tutto, impero, corona, dignità.
Anche Courbet avrebbe perso tutto con la guerra franco-prussiana, Sedan, il tracollo militare, la Francia umiliata, la Repubblica... Se l’imperatore fu in fondo vittima della sua mediocrità, il pittore pagò cara la sua megalomania, il «Courbet salvatore del mondo» secondo la definizione laconica e ironica di Baudelaire. Personaggio di spicco della Comune di Parigi prima, vittima illustre, a mo’ di capro espiatorio, della successiva restaurazione, il pittore fu dimenticato in nome dell’agitatore: il passo successivo fu il suo trasferimento nel pantheon dei rivoluzionari, intanto che la modernità faceva a pezzi il suo realismo così a lungo teorizzato. Ci sarebbe rimasto per tutto il Novecento, icona un po’ frusta e sempre più malinconica che solo la riscoperta pubblica, nel 1995, di L’Origine du monde, il sesso femminile come una natura morta, avrebbe rimesso in discussione.
A trent’anni dall’ultima grande personale, il Grand Palais ospita ora (fino al 28 gennaio) questa retrospettiva «Gustave Courbet» in cui L’Origine du monde ha la giusta collocazione all’interno di un universo pittorico coerente, dove l’esibizionismo courbettiano si manifesta in tutta la sua ampiezza, pregi e difetti compresi. Dipinta nel 1866 per il diplomatico turco-egiziano Khalil Bey, acquistata a fine Ottocento dal mercante d’arte francese Antoine Le Narde, finita nel primo Novecento nella collezione privata di un nobile ungherese, il barone Hatvany, sequestrata nel 1945 dall’Armata Rossa e poi riscattata dal legittimo proprietario, la tela fu comprata nel 1954 dallo psicanalista Jacques Lacan. Come già avevano fatto i suoi due primi possessori, Lacan apparecchiò intorno al dipinto un piccolo quanto lambiccato rituale di svelamento-rivelazione dove un altro quadro faceva da sipario all’opera nascosta, «idolo dell’assenza» chiamato a esaltare l’essenza stessa dell’amore...
Eppure, la sottolineatura erotico-sessuale ha poco a che fare con il puro e semplice punto di vista tecnico del suo autore, come al solito impegnato a rivaleggiare con i maestri dell’antichità: «Tiziano, Veronese, il loro Raffaello, io stesso, non abbiamo mai fatto nulla di più bello». Ed è ancora Edmond Goncourt, l’autore della iniziale definizione di Courbet come «idiota popolare», il più felice nella sua critica: «Debbo fare un’onorevole ammenda: questo ventre di donna è bello come la carne di un Correggio».
Figlio di ricchi proprietari terrieri, benestante per rendita e amicizie, Courbet era un borghese che si travestiva da bohémien. I suoi splendidi autoritratti raccontano proprio questo, il titanismo come maschera, la ribellione come professione, la ricerca di uno status, un ruolo, una consacrazione: «Courbet che saluta, Courbet che cammina, Courbet che dorme, Courbet in piedi, Courbet morto, sempre Courbet, dappertutto Courbet» come ironizzerà Maxime de Camps... La sua trasformazione della quotidianità in epica vanno nella stessa direzione, un’arte non più separabile dalla morale e dall’utilità, non più elemento in sé, ma macchina al servizio di qualcosa: una denuncia, un’affermazione, una rivendicazione, una classe sociale. «Non ho mai visto né angeli né dee. Ecco perché non ne dipingo». E quindi nemmeno Vergini madri o Bambini Gesù, Diane cacciatrici, Veneri e Psiche, imperatori romani o Re di Francia, niente insomma della pittura dei secoli precedenti.
Dipingeva ciò che vedeva: un funerale a Ornans, il suo paesino natale, una campagnola che fa il bagno, una coppia che fa l’amore nei prati... Tutto però con lo stesso senso di grandezza, la stessa enfasi dei temi antichi. Di qui lo scalpore, l’interesse, la fama. «Mi si definisce come un pittore socialista. Mi ci riconosco, come socialista, ma ancor più democratico e repubblicano, in una parola partigiano di ogni rivoluzione e sopra ogni cosa realista. Perché realista significa amico sincero della verità vera».
Eppure, sino al 1870 fatale per la Francia e per lui, Courbet fu molto attento nel non mischiarsi alla politica. Non partecipò ai moti del ’48 («non ho fede nella guerra con i fucili e i cannoni, non è nei miei principi»), non prese posizione nei confronti del successivo colpo di Stato di Napoleone III, e il suo ritenersi comunque un oppositore del sovrano gli era in fondo reso possibile dalla protezione del conte di Morny, fratellastro dell’imperatore, e del conte di Choiseul, dal mecenatismo della stessa principessa Mathilde... Abilissimo propagandista di se stesso e della propria arte, Courbet fu il più moderno del suo tempo nel costruirsi un’immagine e nel mantenerla viva. Tranquillità economica, amicizie giuste, consapevolezza dei propri mezzi, gli permisero insomma di far parte dell’establishment e però di disprezzarlo, di sottoporre i suoi quadri all’approvazione dell’Accademia e di esporre quelli rifiutati in un Salon a parte da lui prontamente allestito, di dipingere i volti di paesani e di piccolo-borghesi e le fattezze dei levrieri della nobiltà... «Quando non sarò più discusso non sarò più importante».
Alla fine, la «discussione» lo sovrastò, la leggenda che aveva contribuito a creare, l’anarchico, l’anticlericale, il nemico di ogni sovranità, lo travolse.

Finirà prima in prigione e poi in esilio, Courbet, accusato di aver ordinato la demolizione della colonna Vendôme nei giorni rivoluzionari della Comune, condannato a pagare senza che più nessuno, in una Francia invasa e umiliata, piena di sensi di colpa e di sogni di rivalsa, abbia più voglia di occuparsi di lui. Rimarrà da solo con le sue nature morte, le sue trote di fiume appese a un laccio a mo’ di autoritratto, la pittura come metallico silenzio.

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