Gian Marco Chiocci
Claudia Passa
da Roma
La Procura di Palermo sostiene che la cassaforte a muro del covo di Riina è scomparsa, o meglio «interamente asportata» dall’abitazione di via Bernini nel periodo della mancata perquisizione dopo l’arresto del Padrino. La pentita Giusy Vitale venerdì ha parlato di documenti scottanti, custoditi presumibilmente in quella cassaforte, in grado «di far saltare lo Stato». Il suo «collega» Gioacchino La Barbera, il 18 novembre scorso, era stato ancora più esplicito: «Hanno aspirato tutto con l’aspirapolvere, portato via vestiti, documenti, e le cose più importanti. E poi tinto le pareti e smurata la cassaforte. La portarono via e rimurarono il buco perché non si vedesse più nulla». Altri collaboranti, sul punto, riferiscono chi una cosa chi un’altra, sempre per sentito dire o per deduzione. Insomma, intorno a questa benedetta cassaforte è stato detto di tutto, di più, forse troppo, visto che la cassaforte, udite udite, non è mai scomparsa. Proprio così. L’ha scoperto l’avvocato Piero Milio, difensore del capo del Sisde, Mario Mori, alla sbarra insieme al tenente colonnello Sergio De Caprio (alias Ultimo), che catturò l’imprendibile Totò. Ne è venuto a conoscenza nel maggio scorso quando, svolgendo indagini difensive, è entrato nella villetta e si è ritrovato davanti il forziere che ha fotografato a imperitura memoria. Dopo di che ha riletto tutti gli atti e si è ricordato di un procedimento collegato (il processo Montalbano) nel quale ha trovato quel che non pensava di trovare: lo spunto per richiedere ufficialmente le 80 fotografie scattate dai carabinieri del Nucleo operativo di Palermo al momento dell’irruzione nel covo, mai acquisite dalla Procura. Fra le immagini c’è quella della cassaforte «scomparsa», che invece è lì, in bella mostra, attaccata al muro.
La cassaforte, dunque, c’era il giorno del blitz, ovvero il 2 febbraio 1993. C’è il 25 maggio 2005, quando Milio si fa immortalare dal figlio a casa di Riina. Non c’era, evidentemente, il 17 novembre 1998, quando il pm Antonio Ingroia (che sostiene l’accusa nel processo a Mori e De Donno) insieme al pm Antonio Teresi, invia una nota riassuntiva dei fatti al Tribunale di Milano dov’è pendente un procedimento contro i giornalisti Attilio Bolzoni e Saverio Lodato, querelati da Mori, De Caprio e dal colonnello De Donno per alcuni passaggi del libro C’era una volta la lotta alla mafia.
Cosa scrivono le due toghe? Leggiamo: «Quando detta perquisizione venne effettuata (in data 2 febbraio ’93, a distanza di ben 18 giorni dalla cattura) la casa venne rinvenuta completamente svuotata di ogni cosa, al punto che al suo interno erano stati financo rimossi molti dei mobili esistenti e tutti gli effetti personali degli occupanti, erano stati effettuati lavori di dismissione della carta e di alcuni rivestimenti delle pareti della stanza, ed era stata interamente asportata una cassaforte incassata a muro». Che la cassaforte del covo fosse stata asportata lo lascia intendere, sempre nel processo di Milano, anche il pm Vittorio Aliquò che il 16 dicembre 2003 nel rispondere alle domande dell’avvocato Malavenda, afferma: «C’erano (nel covo, ndr) tutte le stanze completamente vuote, c’era una stanza blindata che si usa per le pellicce, e poi c’era la traccia di una cassaforte che avrebbe dovuto essere posata da qualche parte».
Il documento dei magistrati della Dda e le dichiarazioni del pm Aliquò cozzano, però, con quanto riportato e controfirmato dai carabinieri Rolando Cionco, Luigi Saladino, Luigi Costanzo, Giuseppe Cuccaro e Luigi Lanza nel «verbale di sopralluogo» in via Bernini 52/54 «in occasione dell’individuazione del covo di Riina Salvatore, in altri atti meglio generalizzato». Scrivono i sottufficiali dell’Arma: «(...) sulla parete posteriore destra si rileva una cassaforte a parete, in atto chiusa. Quest’ultima, che veniva aperta dal retro e più precisamente dal vano bagno, risultava vuota». Aperta da dietro, non «interamente asportata». Il riscontro diretto sia sull’esistenza della cassaforte, sia del buco con la fiamma ossidrica ricavato dalla parete del bagno, è già verbalizzato a nome di Marco Minicucci. Chi è? Semplice: il capitano dei carabinieri che diresse la perquisizione. Quel riscontro decisivo l’avvocato Milio l’ha prima rintracciato in un processo parallelo al Tribunale di Sciacca, poi l’ha fatto confermare in dibattimento dallo stesso ufficiale.
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