Cowboy, poeta, rocker. Autoritratto di Bruce in sette album inediti

Esce "Tracks II" di Springsteen. Contiene oltre 80 brani composti in quasi trent'anni

Cowboy, poeta, rocker. Autoritratto di Bruce in sette album inediti
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Deve esserci qualcosa di inarrestabile in Bruce Springsteen se, nel bel mezzo di un tour europeo, decide di pubblicare contemporaneamente sette dischi, dicesi sette, che qui e là aveva registrato in un arco di ventisette anni e poi, lui così inarrestabile, aveva rimosso per pubblicarne altri. Si intitola "Tracks II: The lost albums", venerdì 27 giugno sarà sul mercato (anche digitale), si compone di 9 vinili e 7 cd, in totale 83 canzoni nuove fiammanti e, tranquilli, presto «ci sarà anche un Tracks III» come rassicura Springsteen.

Per chiarezza, i titoli dei dischi danno le prime indicazioni: "LA Garage Sessions ’83", "Street of Philadelphia Sessions", "Faithless", "Somewhere North of Nashville", "Inyo", "Twilight hours " e "Perfect world". Per capire meglio, il cofanettone è accompagnato da un libro rilegato in tessuto con 100 pagine di note scritte dal saggista Erik Flannigan che spiegano, ad esempio come il disco "Faithless" sia «il vero outsider» e come "Inyo" sia «intriso della vita di Los Angeles, un po’ il sequel di The ghost of Tom Joad». E, fin qui, rientra tutto nella procedura tipica del "mausoleo rock" cui ci stiamo sempre più abituando: le canzoni inedite del passato, i ricordi e l’apologia dello scrittore sono un must per ogni operazione nostalgia.
E invece no.

"Tracks II" non serve solo a far cassa, non è una raccolta di scarti messi in circolazione per riempire il serbatoio vuoto di ispirazione e attendere tempi migliori. Tutt’altro. Questi sette dischi impongono una maratona di ascolto (suppergiù cinque ore, mica poco) ma hanno un senso, rappresentano tutti i Bruce Springsteen che avremmo potuto sentire in questi tre decenni ma che ci siamo persi perché c’era altro. «Erano dischi completi, alcuni addirittura già mixati ma mai pubblicati», dice lui. Che poi aggiunge: «Ho suonato questa musica per me stesso e per alcuni amici intimi per anni», confermando ciò che oggi sembra così strano e cioè che fino a pochi anni fa la stragrande maggioranza dei musicisti non incideva soltanto la musica da pubblicare ma viveva scrivendo e registrando nuovi pezzi, spesso belli come quelli noti ma poi, per un motivo o per l’altro, lasciati nel cassetto. «Durante la pandemia ho preso in mano tutto ciò che avevo nel mio archivio».
È una specie di "Promiseland" del Boss.

Ad esempio, "LA Garage Sessions ’83", con la sognante "Johnny bye bye", rappresenta lo Springsteen più folk e alternativo sulle stesse tracce di "Nebraska". Poi però a stretto giro pubblicò "Born in the Usa" che fece boom e addio al materiale delle Sessions. Quelle canzoni rimasero in cantina perché con quelle nuove Springsteen arrivò negli stadi di tutto il mondo e di conseguenza nell’iconografia degli anni Ottanta, la bandiera americana, i jeans, la chitarra imbracciata come fosse un grido di battaglia. Come lui solo Madonna in quel decennio. Ovvio che il folk rock sofferto e malinconico stile Nebraska non andasse più bene.

Un altro Springsteen è quello che ricorda quando «avevo pubblicato la canzone "Streets of Philadelphia" e mi sono detto: “Beh farò altre registrazioni come quella"». Detto, fatto. Ma poi ne è venuto fuori «un album particolarmente cupo e non sapevo se il mio pubblico sarebbe stato in grado di ascoltarlo in quel momento». Sono trascorsi 32 anni da allora e adesso il pubblico è in grado di ascoltarlo.

E se in "Faithless" ci sono brani con il banjo come "Goin’ to California" perché «mi era stato commissionato di scrivere per un western che trattava alcuni temi spirituali nei primi anni Duemila», in "Somewhere north of Nashville" spuntano il country, la pedal steel, il tramonto dopo il rodeo e la birra al brewpub. Poi c’è "Inyo", che è malinconico come il brano che dà il titolo e le storie che racconta, tutte sull’incrocio di culture messicana e americana a Los Angeles.

Fin qui, diciamo, non è uno Springsteen che sprizzi allegria, anzi, è molto pacato, meditativo, a tratti spirituale. Diventa più arioso quando cambia volto in "Twilight hours", da cupo si trasforma in romantico e di sicuro ha ascoltato Frank Sinatra e il Rat Pack, oltre che i cantanti pop americani di Sessanta e Settanta, quelli tutti scintillanti che grondavano buoni sentimenti. Volete lo Springsteen da stadio, quello che ti alzi in piedi appena si attacca la chitarra? Eccolo in "Perfect world" che, con pezzi come "I’m not sleeping" o "You lifted me up" oppure, meglio ancora, la magnifica "Idiots delight" con una armonica potentissima, raccoglie il lato rock del Boss, quello che dal vivo fa(ceva) tremare i muri e qualche volta pure le coscienze o le anime.

Insomma, la «Maratona Springsteen», alla quale, specialmente in "Perfect world", partecipa pure la E Street Band, è una sorta di crociera nell’ispirazione di questo 75enne che Trump ha appena definito «prugna secca» ma che, in realtà, ha fatto fiorire un bel po’ della musica più bella dell’ultimo mezzo secolo legandola a doppia mandata a un paio di generazioni.

Ci sono artisti, in questi "Lost Albums", che vivevano nascosti dentro Springsteen e solo adesso hanno avuto voglia di mettersi finalmente sotto i riflettori. Non sono tutte rockstar, non filano tutti dritti al primo posto ma, diciamocelo chiaro, mettono insieme il più completo, profondo e variopinto autoritratto che un musicista si sia mai fatto.

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